HA ANCORA SENSO PARLARE DI “GUERRA DEI TALENTI”?

 da HR ONLINE

Si racconta di un’azienda che, disperata perché non riusciva a trovare neanche mezzo talento, decise di assumere un famoso cacciatore. L’uomo si presentò con un cappello a tesa larga, un binocolo e un taccuino pieno di appunti.

«Troverò per voi il miglior talento sulla piazza», dichiarò con sicurezza.
Passarono giorni, poi settimane. Ogni sera il cacciatore tornava sconsolato: «Ne avevo visto uno… ma era già stato catturato da un’altra azienda». Oppure: «Ne ho seguito le tracce per chilometri… poi ho scoperto che lavorava da remoto alle Canarie». O ancora: «Ne ho incontrato uno brillante, ma vuole un capo che ascolti davvero».

A un certo punto, uno dei collaboratori ebbe un’intuizione: «Ma non sarebbe più semplice cambiare la foresta invece di cambiare cacciatore?»

I talenti non erano scomparsi, semplicemente sceglievano loro dove mettere radici.

L’espressione “war for talent” nasce nel 1997, quando un gruppo di consulenti di McKinsey & Company pubblica una ricerca che analizzava la crescente difficoltà delle aziende nel trovare, attrarre e trattenere le persone ad alto potenziale.

Il concetto diventa poi famoso nel 2001 con il libro The War for Talent (Michaels, Handfield-Jones, Axelrod), che consolida l’idea di una competizione intensa tra imprese per assicurarsi le competenze chiave in un mercato del lavoro sempre più selettivo.

Da allora il termine è entrato nel linguaggio HR per descrivere lo squilibrio strutturale tra domanda e offerta di competenze e, nel corso degli anni, è stata spesso oggetto di controversie.

Per alcuni osservatori rappresenta ancora oggi una lente utile per interpretare la competizione tra imprese in un mercato del lavoro caratterizzato da scarsità di competenze. Per altri, invece, è un concetto superato, incapace di descrivere la reale complessità dei fenomeni contemporanei. La verità è che oggi convivono scuole di pensiero differenti, ciascuna radicata in una diversa visione del lavoro, dell’organizzazione e della relazione fra individui e sistemi.

La prima scuola sostiene che la “guerra dei talenti” sia più attuale che mai. A supporto di questa posizione c’è un dato di fatto: la demografia. L’Italia sta vivendo una contrazione della popolazione attiva senza precedenti: in alcune province, per ogni giovane che entra nel mercato del lavoro ce ne sono due che ne escono. In parallelo, le competenze richieste dalle imprese – soprattutto digitali, tecniche e manageriali – si evolvono molto più rapidamente della capacità del sistema formativo di produrle. In questo scenario, la competizione fra aziende diventa inevitabile: attrarre un data engineer, un project manager esperto o un profilo STEM non è solo difficile, è costoso e sempre più simile a un conflitto permanente. Chi abbraccia questa visione continua a leggere il mercato come uno spazio competitivo, dove la differenza la fa la capacità di presidiare il “pipeline dei talenti”, attivare una strategia di employer branding credibile, mettere a terra politiche retributive aggressive e azioni di retention sofisticate.

La posizione opposta parte invece da un’altra premessa: parlare di “guerra” distorce il senso del problema e rischia di generare soluzioni inefficaci. Secondo questa scuola, il concetto nasce in un mondo in cui il talento era percepito come una risorsa rara da accaparrarsi, spesso identificata in poche figure ad alto potenziale. Ma oggi le imprese performano non grazie a pochi “talenti-eroi”, bensì grazie a ecosistemi organizzativi capaci di far crescere, collaborare e innovare un numero molto più ampio di persone. Il punto non è competere per i talenti, ma costruire sistemi che li generino. In quest’ottica, parlare di “guerra dei talenti” rischia di far concentrare le aziende sulla caccia all’individuo anziché sulla trasformazione del contesto. In Italia, dove la produttività cresce lentamente e molte imprese soffrono di culture gerarchiche e poco inclusive, questa prospettiva indica una direzione più strutturale: investire in leadership diffuse, ambienti psicologicamente sicuri, percorsi di crescita accessibili e una maggiore integrazione tra formazione, sviluppo e lavoro reale.

Esiste poi una terza posizione, più sfumata, che considera il termine ancora utile ma solo se reinterpretato. Secondo questa visione, la scarsità di talenti è reale, ma riguarda soprattutto la capacità di integrare saperi diversi, apprendere velocemente, creare valore dentro sistemi complessi. Il talento non è più una dote innata né un profilo “brillante”, ma una combinazione di competenze tecniche, maturità relazionale e consapevolezza professionale. La competizione tra imprese non scompare, ma si sposta: non si vince monopolizzando i migliori, bensì costruendo condizioni di lavoro che attraggano chi vuole esprimere il proprio potenziale senza sacrificare qualità della vita e senso professionale. In questo senso, la transizione italiana verso modelli di organizzazione più moderni – dalla sperimentazione del lavoro ibrido alla crescente attenzione per il benessere, fino all’ingresso delle nuove generazioni con aspettative molto diverse – rende la questione più articolata di un semplice scontro competitivo.

La domanda, quindi, non è tanto se la “guerra dei talenti” esista ancora, ma quale narrazione sia più utile per guidare le scelte strategiche delle imprese italiane. Se continuiamo a leggerla come un conflitto per accaparrarsi i pochi “migliori”, rischiamo di non vedere che il vero problema è la capacità del sistema di produrre competenze, trattenere giovani qualificati e valorizzare professionalità senior spesso sottoutilizzate. Se invece comprendiamo che la competizione per le competenze è solo un sintomo di cambiamenti più profondi, allora possiamo spostare il focus dalla battaglia per attirare persone “rare” alla costruzione di organizzazioni in cui molti più lavoratori possano diventare talenti.

In un Paese che affronta una trasformazione demografica, tecnologica e culturale accelerata, forse la domanda davvero utile non è se siamo in guerra, ma se stiamo preparando le nostre organizzazioni alla pace: una pace fatta di competenze distribuite, crescita continua e senso del lavoro condiviso. È questo, oggi, il terreno su cui si gioca la partita più importante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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