L’EPOCA DELLA INFEDELTA’

 da HR ONLINE

2.000 a.C.: “Sei ammalato? Mangia questa radice”.

1.000 d.C.: “Sei ammalato? Quella radice è solo superstizione, recita una preghiera”.

1850 d.C.: “Sei ammalato? Quella preghiera è solo superstizione, bevi questa pozione”.

1940 d. C.: “Sei ammalato? Quella pozione è inefficace, prendi questa pillola”.

1985 d. C.: “Sei ammalato? Quella pillola è inefficace, prendi questo antibiotico”.

2024 d. C.: “Sei ammalato? Quell’antibiotico ti fa male, mangia questa radice”.

Ovviamente si gioca, ma come in ogni buon gioco vi è racchiusa anche un po’ di vita.

Da un lato il ritorno alla “radice” può essere letto come bisogno di riscoperta della propria identità più profonda. Perfino il progresso scientifico rivaluta rimedi antichi, così come ogni forma di manifestazione umana. Vale per l’arte come per la filosofia. La tecnologia procede a passi da gigante e noi dobbiamo riscoprire le nostre origini per non perderci.

D’altro lato, il ritorno alla “radice” può essere letto come il prevalere di antiche forme di superstizione e incultura. Oggi l’indifferenza generalizzata e l’individualismo spinto stanno generando un movimento carsico fatto di ignoranza e diffidenza verso tutti e tutto. L’ignoranza comincia a farla da padrona e tanto più il progresso tecnologico e scientifico si sviluppa tanto più vi è una parte della società che decide di rimanere indietro, come diceva Petrolini, un po’ per celia, un po’ per non morire.

In questo contesto dobbiamo far valere le ragioni della razionalità e del rispetto per la persona. In questo senso i luoghi di lavoro sono rimasti tra i pochi ambiti di socializzazione concreta e di scambio produttivo tra esseri umani che devono capirsi e convivere per raggiungere un obiettivo comune. Sono un luogo produttivo non solo di valore economico e strumentale, ma anche di socialità e progresso. Il lavoro, lungi dal perdere importanza, assume un ruolo ancor più centrale nello sviluppo armonico della persona e della società di cui vuole essere protagonista. Per questo motivo, chi ricopre un ruolo direttivo nelle organizzazioni, produttive e di servizio, ha oggi un ruolo di particolare rilevanza, molto più ampia e profonda di quella ricoperta solo mezzo secolo fa. I leader d’azienda hanno una funzione che dev’essere ispirata, per dirla con i greci, da pietas e non da hybris.

Chi ha fatto il classico ricorderà che il termine hybris viene spesse volte tradotto con «tracotanza»: è la presunzione degli uomini che, a forza di accumulare successi, credono di potersi elevare sopra tutti gli altri loro simili, consentendosi azioni che vanno contro le loro leggi. Insomma, chi commette un atto di hybris si ritiene superiore perfino alle divinità. Una forma odierna, forse meno appariscente, di hybris è quella esercitata da chi possiede grandi ricchezze o grandi competenze. Possedendo ricchezze e competenze ritengono di essere superiori alle altre persone, che meritano solo disprezzo perché meno abbienti o meno acculturate. Per non incorrere in questo rischio, hybris va controbilanciata con un altro sentimento: la pietas. Che non vuol dire «pietà», quanto piuttosto «attenzione per il prossimo». Il non dimenticarsi, insomma, di essere parte di una rete di esseri umani. Uno stile di leadership sostenibile dev’essere quindi ispirato da pietas, rifuggendo ogni tentazione di supponenza o alterigia.

Sul tema della cultura vorrei ricordare alcune semplice parole di Antonio Gramsci, scritte più di un secolo fa. Sono parole che dovrebbero far riflettere perché si applicano anche a chi possiede le informazioni e le conoscenze per generare innovazione tecnologica e produttiva.

” Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri”.

Una cultura d’impresa attenta alle persone è particolarmente importante in questo momento storico, dove è mutato profondamente il contratto psicologico che intercorre tra l’individuo e le organizzazioni.

Fino agli anni ’90 ancora reggeva il contratto sociale tra datori di lavoro e collaboratori, in cui le aziende promettevano di tutelare l’occupazione e di assicurare le carriere dei propri dipendenti fedeli. Con gli anni ’90 vengono a mancare le condizioni occupazionali dell’epoca fordista e con queste vengono meno i patti di lealtà reciproca tra individuo e organizzazioni di appartenenza. La lealtà, infatti, è una strada a doppio senso. Purtroppo, l’azienda oggi non può più garantire di mantenere le promesse a lungo termine che faceva una volta ai suoi lavoratori perché i mercati sono diventati troppo volatili. Perché, allora, le persone dovrebbero farlo?! Fino a poco tempo fa si pensava che il duro lavoro e la fedeltà avrebbero comportato premi, promozioni e che l’impresa si sarebbe presa cura dei lavoratori fino alla pensione. Era un’aspettativa ragionevole. Il collaboratore si prendeva cura dell’azienda e questa si prendeva cura del collaboratore. Oggi tutto ciò non è più vero. Vale finché l’azienda rimane redditizia, finché i mercati reggono o finché viene acquisita. Nessuna meraviglia, in queste condizioni, se il contratto psicologico è sottoposto a continue verifiche, dove valgono più i rapporti di forza che non gli affidamenti reciproci. In tre decenni, dagli anni ’90 ad oggi, è cambiato tutto. Non c’è più il lavoro “ a vita” e chi perde il posto non è detto che lo possa ritrovare facilmente. Le imprese sono costantemente chiamate a “fare sempre di più con meno”. Per perseguire questo mantra molte imprese hanno iniziato a considerare le persone come una merce rinvenibile sul mercato alle migliori condizioni di volta in volta offerte. Nessuna meraviglia che le persone abbiano iniziato a considerare le imprese alla stessa stregua. Non oggetti del desiderio su cui investire, ma tram su cui saltare solo per giungere alla successiva fermata. Nasce così l’epoca dell’infedeltà.

In queste mutate condizioni di mercato e di relazione tra individui e organizzazioni occorre riscoprire le radici della propria funzione. Gli HR devono ritrovare il senso profondo del loro operare. Smettere d’inseguire l’ultima moda della società di consulenza di turno e ricominciare a creare il tessuto connettivo dell’impresa. Come nella storiella d’introduzione, ritrovare le proprie origini, il prendersi cura delle persone e delle organizzazioni come un connubio indissolubile.

 

 

 

Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano

 

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