LA GRATITUDINE, BASE DI UNA SOCIETA’ CIVILE

 da CAOS MANAGEMENT

LA GRATITUDINE, BASE DELLA SOCIETA’ CIVILE

Anni fa, durante una delle sue lezioni, l’antropologa Margaret Mead fu interrogata da uno studente su quale fosse, a suo giudizio, il primo segno di civiltà in una cultura. La domanda era ingenua, ma tutt’altro che banale. Mead, che aveva passato la vita a studiare le società tradizionali, avrebbe potuto rispondere con esempi ovvi: le punte di freccia, le macine di pietra, i vasi per conservare il cibo, le incisioni rituali, i primi segni di organizzazione sociale. Ma la sua risposta spiazzò tutti: «Il primo segno di civiltà è un femore guarito.»

Lo stupore fu immediato. Perché mai un osso rotto e risaldato avrebbe dovuto rappresentare la soglia della civiltà? Mead spiegò che, nel regno animale, una frattura del femore equivale a una condanna a morte. L’animale ferito non può correre, non può fuggire né cacciare. Diventa una preda facile.

Un femore guarito, dunque, significa che qualcuno si è fermato, ha curato, ha atteso. Qualcuno ha scelto di non abbandonare il più debole, di condividere tempo, risorse e rischio per salvare un altro essere vivente. È lì, dice Mead, che nasce la civiltà: nel gesto di prendersi cura. Questa immagine semplice e potente racchiude una verità più ampia di quanto possa sembrare.

La civiltà non nasce con la tecnologia, ma con l’etica. Non con l’invenzione dello strumento, ma con l’invenzione dell’attenzione. Quando un gruppo umano decide che la sopravvivenza del singolo ferito ha valore, anche se non è più “utile” alla caccia o alla difesa, sta compiendo un atto fondativo: riconosce che la vita dell’altro conta.

E dentro a questo riconoscimento germoglia una virtù sottile, ma decisiva: la gratitudine. Chi viene salvato sa che deve la propria vita a qualcun altro. E chi ha salvato, nel gesto di proteggere, sperimenta la reciprocità di un legame che rafforza il gruppo. In questo intreccio invisibile di debito e dono, di riconoscenza e memoria prende forma la cultura umana.

La gratitudine

La gratitudine, in questa prospettiva, non è soltanto un’emozione, ma una vera e propria struttura del vivere civile. Ogni società, per quanto complessa, si regge su una rete di favori, aiuti, attenzioni, fiducia. La giustizia e la legge vengono dopo; ciò che viene prima è il riconoscimento dell’altro come portatore di un valore che non può essere ridotto a mera utilità.

Gli antropologi lo sanno bene: nelle società arcaiche lo scambio di doni aveva una funzione profondamente simbolica. Marcel Mauss, nel suo Saggio sul dono, mostrò come l’obbligo di donare, ricevere e restituire fosse la base stessa della coesione sociale. Il dono crea legami e il sentimento che li cementa è la gratitudine: quella forma di memoria che impedisce alle relazioni di dissolversi nell’indifferenza.

Lucio Anneo Seneca

Seneca, venti secoli prima, aveva già intuito questa verità. Nel De beneficiis afferma che la società si fonda su uno scambio continuo e virtuoso di benefici: dare, ricevere e restituire sono i gesti che tengono in vita la comunità. Ma,  ammonisce, non è la cosa data che conta, bensì l’animo con cui la si dà. Un dono privo di benevolenza, un favore fatto per calcolo o per interesse non è un beneficio, ma una forma di dominio. La gratitudine, allora, non è una restituzione materiale, ma una reciprocità morale. Non obbliga per legge, ma impegna per virtù. Essere grati significa riconoscere la dipendenza reciproca, l’intreccio di debiti e attenzioni che ci lega gli uni agli altri. Significa ricordare che la nostra libertà non è mai assoluta, ma intrecciata alle mani che ci hanno sostenuto nei momenti di fragilità.

L’ingratitudine

Eppure, proprio questa consapevolezza sembra oggi offuscarsi. Viviamo in società dove il merito è esaltato e la vulnerabilità negata, dove l’individuo si percepisce come autosufficiente e il bisogno dell’altro è visto come una debolezza. L’illusione di autosufficienza sta erodendo la base morale della convivenza. Seneca avrebbe detto che l’ingratitudine è una malattia dell’anima: un vizio che distrugge la fiducia e corrompe la generosità. Quando la gratitudine scompare, anche la virtù si spegne, perché nessuno è più disposto a donare se non trova riconoscenza.

“L’ingratitudine,” scrive, “spegne la sorgente dei benefici.”

Ma l’ingratitudine, prima ancora che un difetto etico, è anche un meccanismo psichico profondo. La psicoanalisi, da Melanie Klein a Winnicott, da Kohut a Lacan, ci mostra che la gratitudine nasce solo quando si è capaci di tollerare la dipendenza e di riconoscere il valore dell’altro senza sentirsi diminuiti. Nei primi rapporti della vita, l’oggetto che nutre è anche quello che frustra, e la maturità psichica consiste nel saper tenere insieme questi due aspetti. Quando questa integrazione non avviene, il bene ricevuto suscita invidia, sospetto e paura. L’altro che dona può apparire troppo potente e quindi minaccioso. L’ingratitudine diventa allora una difesa contro la vulnerabilità: se non riconosco il dono, non ammetto di aver avuto bisogno.

In questa prospettiva, la mancanza di gratitudine non è tanto freddezza o insensibilità quanto una forma di autodifesa contro il rischio di dipendere. Rifiutare di ringraziare significa affermare un’autonomia che in realtà è illusoria, un modo per proteggersi dal sentimento di debito o di inferiorità. È una difesa narcisistica, una negazione della fragilità. Al tempo stesso, vi sono situazioni in cui il rifiuto del dono è la reazione a un gesto percepito come intrusivo o manipolatorio: quando l’aiuto umilia o serve a controllare, l’ingratitudine diventa un tentativo di salvaguardare la propria identità. Così, nella vita psichica come in quella sociale, il dono e la gratitudine sono possibili solo in un contesto di libertà, non di subordinazione o dipendenza forzata.

Nessuno si salva da solo

Queste dinamiche interiori si riflettono anche nelle organizzazioni e nelle istituzioni. Un capo o un sistema che dona per calcolo o per costruire consenso difficilmente genera riconoscenza autentica. La gratitudine nasce solo quando chi riceve si sente libero di accettare e non obbligato a ricambiare.

In questo senso, l’ingratitudine non è sempre colpa, ma talvolta è sintomo: segnala una relazione mal costruita, un eccesso di potere nel donare o un’incapacità di ricevere senza sentirsi umiliati.

La psicoanalisi ci ricorda allora che la gratitudine è un segno di maturità affettiva, perché implica memoria, umiltà, capacità di tollerare l’ambivalenza.

L’ingratitudine, al contrario, rivela una fragilità profonda del Sé, un’incapacità di integrare la dipendenza e l’autonomia, il dare e il ricevere, la libertà e il legame. È la forma più sottile di difesa contro la riconoscenza, perché riconoscere il bene ricevuto significa anche riconoscere i propri limiti.Su questo piano interiore si innesta di nuovo la lezione di Seneca, che nel De beneficiis insegna come dare e ricevere siano arti morali e relazionali. Il beneficio deve essere dato con gioia, discrezione e misura; deve essere ricevuto con umiltà, memoria e gratitudine.

Il dono, se autentico, non crea sudditanza ma libertà; non umilia chi riceve, ma lo onora. Il benefattore saggio non dà per ottenere riconoscenza, ma perché agire secondo virtù è già di per sé la ricompensa. Non deve rinfacciare, non ostentare, non amareggiarsi per l’ingratitudine: la virtù, dice Seneca, è la sola moneta che non perde valore. Chi riceve, a sua volta, deve ricordare sempre, non per obbligo, ma per scelta morale, il bene ricevuto.

Questa visione dialoga con la lezione antropologica di Mead e con quella sociologica di Mauss. In tutti e tre, il dono non è solo una transazione, ma una forma di coesione sociale e morale: un modo per dire “tu conti”, “tu appartieni”.

Riflettere sulla gratitudine significa allora tornare a un principio originario: nessuno si salva da solo. Ogni progresso, ogni istituzione, ogni conquista nasce dal contributo di molti. La gratitudine è la forma più antica di giustizia: riconoscere ciò che ci è stato dato. Non è un sentimento accessorio, ma una dimensione costitutiva dell’essere umano. È la consapevolezza che la nostra esistenza è un dono, e che ogni gesto di bene ricevuto porta con sé il dovere silenzioso di trasmetterlo.

Quando una società perde la gratitudine, perde anche la capacità di coesione. Diventa fragile, sospettosa, incapace di cura. Non è un caso che nei momenti di crisi (guerre, pandemie, catastrofi) torni ad emergere una forma spontanea di riconoscenza: per chi cura, per chi aiuta, per chi resta. È in quei momenti che ricordiamo, quasi istintivamente, che la civiltà non è un edificio di pietra, ma una rete di attenzioni reciproche.

Quel femore risaldato, vecchio di quindicimila anni, è dunque molto più di una curiosità archeologica: è un monito morale. Ci ricorda che la nostra storia non è solo lotta per la sopravvivenza, ma anche storia di cooperazione e di riconoscenza.

Ogni volta che una persona si ferma per aiutare un altro a rialzarsi, ogni volta che un’istituzione tutela i più fragili, ogni volta che la solidarietà prevale sull’indifferenza, stiamo, in qualche modo, riscrivendo quella stessa storia.

Forse la gratitudine non è semplicemente un sentimento morale, ma una tecnologia sociale dell’umano, lo strumento più antico e più efficace per costruire comunità. Ed è anche, per dirla con Seneca, la virtù che mantiene in vita la civiltà; perché il vero saggio continua a fare del bene anche in un mondo ingrato, poiché la virtù non dipende dal riconoscimento altrui, ma dalla coerenza interiore.

Quel femore guarito che Mead mostrava ai suoi studenti non è soltanto una traccia del passato, ma un’immagine del presente. Ogni volta che la gratitudine risana una frattura tra le persone, la civiltà si rimette in piedi.

Curare, ricordare, ringraziare: sono i gesti che impediscono al mondo di ricadere nella barbarie. E forse il futuro, come quel femore, potrà ancora saldarsi, se sapremo custodire la fragile ossatura della riconoscenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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