La produttività del lavoro rappresenta la variabile chiave per misurare la capacità di un’economia di generare crescita sostenibile e benessere diffuso. In Italia, tuttavia, essa costituisce da decenni l’anello debole del sistema. Il “Rapporto annuale sulla produttività “ del CNEL, presentato a settembre 2025, conferma una tendenza ormai consolidata: dalla metà degli anni Novanta, il nostro Paese ha accumulato un ritardo persistente rispetto ai principali partner europei. Tra il 1995 e il 2024, la produttività del lavoro è cresciuta in media dello 0,2% l’anno, contro l’1,2% dell’UE27.Il divario medio di 1 punto percentuale ogni anno, dopo trent’anni è diventato un abisso!
Questo divario non è imputabile a una singola causa, ma a una combinazione di fattori che interagiscono tra loro. Dopo la crisi finanziaria globale del 2008, l’Italia ha sperimentato una fase di parziale recupero, grazie a processi di selezione industriale, riforme del mercato del lavoro e incentivi all’innovazione. Tuttavia, già a partire dal 2014 la dinamica si è di nuovo arrestata, con una crescita prossima allo zero. Negli anni più recenti, la ripresa occupazionale (+4,4% nel quinquennio 2019-2024, superiore alla media europea) è stata trainata soprattutto da settori ad alta intensità di lavoro ma a basso valore aggiunto, come costruzioni, ristorazione e sanità. Ne è derivata una crescita quantitativa dell’occupazione che ha inciso poco sull’efficienza complessiva, con effetti depressivi sulla produttività media.
A questo quadro si aggiunge una fragilità negli investimenti. Mentre le economie avanzate hanno progressivamente spostato il baricentro verso il capitale intangibile (ricerca e sviluppo, software, capitale organizzativo) l’Italia ha seguito una traiettoria opposta. Tra il 2013 e il 2023 gli investimenti intangibili sono cresciuti meno del 2,5% annuo, contro il +4,7% della Francia e il +6,1% della Svezia. Nel 2023, la quota di capitale intangibile sul valore aggiunto si attestava al 9,5%, a fronte del 14,5% francese e del 16,5% statunitense. Un ritardo che riflette anche la bassa propensione delle imprese italiane a investire in ricerca: la spesa privata in R&S non supera lo 0,9% del PIL, mentre la Germania raggiunge il 2,2%.
Il nodo delle competenze amplifica questo gap. Solo il 16% dei lavoratori italiani possiede competenze ICT avanzate (contro circa il 30% in Germania e Francia) e appena il 15% dei laureati proviene da discipline STEM, a fronte del 26% della media europea. Il risultato è un mercato del lavoro che offre occupazione, ma prevalentemente in attività a bassa intensità di conoscenza. La conseguenza è una stagnazione dei salari: tra il 2010 e il 2019 i salari reali sono cresciuti in Italia appena dello 0,2% annuo, mentre in Francia e Germania l’incremento è stato rispettivamente dell’1% e dell’1,3%. Dopo lo shock inflazionistico del 2022-2023 (+6,9%), i salari reali sono rimasti inferiori del 7,5% rispetto ai livelli pre-crisi, rafforzando un circolo vizioso in cui bassa produttività e bassi salari si sono alimentati reciprocamente.
Il tessuto produttivo, frammentato e polverizzato, rappresenta un altro limite strutturale. Il 94,7% delle imprese italiane ha meno di 10 addetti, una quota nettamente superiore a quella di Francia e Germania. Più della metà dei lavoratori è occupata in realtà con meno di 20 addetti, caratterizzate da bassa propensione all’innovazione, difficoltà nell’adozione di tecnologie digitali e scarsa partecipazione alle catene globali del valore. I dati confermano la relazione positiva tra dimensione e produttività: nella manifattura, le grandi imprese sono oltre il 70% più produttive delle medie; nei servizi ICT, il divario è ancora maggiore. Tuttavia, il processo di riallocazione verso le aziende più produttive si è indebolito dopo la pandemia, vanificando uno dei canali principali di crescita dell’efficienza aggregata.
Il divario territoriale completa il quadro delle criticità. Tra il 2000 e il 2023 il Nord ha registrato una crescita del PIL pro capite dello 0,5% annuo, mentre il Mezzogiorno è rimasto sostanzialmente fermo (+0,02%). La crisi del 2008-2014 ha inciso in modo particolarmente pesante sul Sud, con un calo medio annuo del PIL pari all’1,9%. La ripresa post-pandemica ha mostrato segnali positivi, con una crescita del PIL pro capite dell’1,5% annuo tra 2019 e 2023, trainata dagli investimenti del PNRR e dal settore pubblico. Ma il ritardo accumulato resta ampio: secondo dati OCSE, la produttività delle imprese meridionali è inferiore di oltre il 20% rispetto a quelle del Nord, anche a parità di settore e dimensione, a causa di deficit strutturali legati a capitale umano, infrastrutture, qualità delle istituzioni e dei servizi locali.
Alla luce di queste evidenze, le raccomandazioni di policy convergono su tre assi principali.
In primo luogo, competenze e investimenti: occorre rafforzare l’integrazione tra scuola, ITS e università, sostenere la formazione tecnica e digitale e potenziare gli incentivi fiscali per ricerca, innovazione e capitale immateriale.
In secondo luogo, la struttura del sistema produttivo: è necessario favorire la crescita dimensionale delle imprese, semplificando il quadro normativo e rimuovendo le barriere legate al superamento delle soglie occupazionali, al fine di rendere più agevole l’accesso a innovazione, export e finanziamenti.
Infine, la coesione territoriale: il rilancio del Sud richiede un’azione mirata su infrastrutture fisiche e digitali, qualità dei servizi pubblici e capacità amministrativa locale, per ridurre la dispersione dei fondi e attrarre capitale umano qualificato.
La sfida della produttività in Italia non può dunque essere affrontata con misure parziali o emergenziali. Richiede una strategia coordinata che tenga insieme capitale umano, innovazione, competitività d’impresa e coesione territoriale. La produttività continua a essere il punto più delicato e insieme più decisivo del sistema economico italiano. Da essa dipende la possibilità di trasformare la crescita quantitativa in sviluppo qualitativo, capace di generare benessere diffuso e duraturo. Guardando agli ultimi decenni, la storia è quella di un ritardo accumulato, di una rincorsa incompiuta e di una frammentazione che ha spesso reso difficile cogliere appieno le opportunità offerte dall’innovazione. Ma il futuro non è scritto.
Il Paese si trova oggi davanti a una scelta che non può essere elusa: rassegnarsi a una stagnazione che rischia di diventare strutturale, oppure imboccare con decisione la via di un rinnovamento che ponga la produttività al centro delle politiche economiche. Non esistono scorciatoie: la sfida non si vince con un singolo provvedimento, ma con una strategia coerente che tenga insieme investimenti in capitale umano, capacità di innovare e riduzione dei divari territoriali.
Per riuscirci serve una visione che vada oltre l’orizzonte del breve periodo. Occorre costruire un ecosistema in cui competenze, ricerca, imprese e istituzioni operino in sinergia, in cui i territori diventino attrattivi per talenti e capitali e in cui la crescita non si misuri soltanto nei numeri del PIL, ma anche nella qualità del lavoro, delle opportunità e dei servizi.
L’Italia ha già dimostrato, in passato, di saper reagire nei momenti più critici con creatività e resilienza. Oggi è chiamata a fare lo stesso, ma con una consapevolezza nuova: la produttività non è un obiettivo tecnico riservato agli economisti, è la condizione necessaria per assicurare prosperità alle imprese, dignità ai lavoratori e coesione alla società. Trasformarla da debolezza cronica a motore di sviluppo inclusivo significa aprire un nuovo ciclo di crescita, in cui il Paese possa finalmente convergere con i partner europei e riconquistare un ruolo da protagonista.