IL BURNOUT NASCOSTO NELLE DIREZIONI HR

 da HARVARD BUSINESS REVIEW

In Italia, il 40% dei lavoratori afferma di voler cambiare azienda entro l’anno. Di questi, oltre il 20% lo farà davvero. È quanto emerge dalla ricerca Gartner HR Priorities Survey 2025, che colloca il nostro Paese tra quelli con la maggiore mobilità lavorativa in Europa. Di fronte a questa instabilità, non sorprende che l’87% dei responsabili HR consideri la retention una priorità strategica per l’anno in corso. Ma mentre cresce la pressione per trattenere e valorizzare i talenti, cosa sta accadendo dentro le direzioni HR?

Secondo lo SHRM State of the Workplace Report 2025, il 62% dei professionisti delle risorse umane ha lavorato oltre la propria capacità nel corso dell’ultimo anno, e il 57% segnala una carenza cronica di personale nei team HR. Non si tratta di episodi isolati: è una tendenza strutturale, che mette in crisi la percezione stessa di efficacia professionale. L’impressione, sempre più diffusa, è quella di dover fare molto con troppo poco.

Il quadro internazionale non è più confortante. Dati di Cezanne HR indicano che il 93% dei professionisti HR ha vissuto episodi di forte stress negli ultimi sei mesi, e oltre il 70% dichiara uno stato di esaurimento emotivo e fisico continuo. Gartner conferma: il burnout non è solo più diffuso di prima, ma anche più grave rispetto al periodo pre-pandemico. E colpisce proprio chi, in teoria, dovrebbe aiutare gli altri a prevenirlo.

Ecco il paradosso: chiediamo alle funzioni HR di occuparsi del benessere organizzativo, ma trascuriamo il loro. Le risorse umane sono oggi il punto di snodo della cultura aziendale, del cambiamento, dell’inclusione, della tenuta emotiva delle persone. Ma se chi guida questi processi è in difficoltà, l’intera impalcatura rischia di indebolirsi.

Il problema non è solo nei carichi di lavoro. È anche — e forse soprattutto — identitario. L’evoluzione tecnologica, le nuove normative, la gestione di transizioni improvvise ed emergenziali hanno trasformato il lavoro HR in un continuo confronto con dilemmi operativi ed etici. Ma spesso mancano gli strumenti — o anche solo il tempo — per affrontarli in modo sostenibile.

Un nodo chiave è la digitalizzazione. Da anni ci si affida alla tecnologia HR come leva di efficienza, ma la realtà è più sfaccettata. Solo il 43% dei professionisti HR, secondo il report SHRM 2025, ritiene davvero efficace la tecnologia in uso nella propria organizzazione. Piattaforme disomogenee, interfacce poco intuitive, scarsa formazione: invece di alleggerire, questi strumenti finiscono spesso per aggiungere complessità. E il risultato è un carico cognitivo crescente. Il 51% dei leader HR dichiara di non sapere misurare con precisione il ritorno degli investimenti in tecnologia. È un disallineamento preoccupante tra aspettative e realtà operativa.

Accanto al sovraccarico tecnico, c’è poi una fatica più silenziosa ma altrettanto presente: quella empatica. Gli HR sono chiamati ad ascoltare, accogliere, gestire tensioni e fragilità. Ma chi si prende cura di loro? Secondo il Workplace Empathy Monitor 2024, il 68% dei professionisti HR sente di dover nascondere il proprio stress per non compromettere la propria credibilità. La sociologa Arlie Hochschild parlava già negli anni Ottanta di emotional labor — quel lavoro emotivo invisibile che oggi, più che mai, caratterizza chi opera nelle risorse umane. Senza spazi adeguati di rielaborazione e senza un riconoscimento interno autentico, questa cura continua rischia di trasformarsi in esaurimento relazionale.

Serve un cambio di passo. Le organizzazioni devono iniziare a prendersi cura di chi si prende cura degli altri. Non basta dire che le persone sono al centro: bisogna iniziare da chi lavora per garantire che questo accada. Politiche di benessere dedicate agli HR, percorsi di mentoring tra pari, momenti strutturati di ascolto, strumenti digitali che semplifichino invece di complicare: sono azioni concrete, non lussi accessori.

Riconoscere la vulnerabilità degli HR non è un segnale di debolezza aziendale. Al contrario, è un atto di intelligenza organizzativa. Per troppo tempo abbiamo chiesto alla funzione HR di essere la colonna portante della cultura aziendale, senza preoccuparci di costruirle fondamenta solide. È ora di invertire la rotta. Se vogliamo organizzazioni resilienti, inclusive e sostenibili, dobbiamo cominciare da chi ogni giorno si occupa del benessere altrui. Il benessere dell’HR non può più essere considerato un tema secondario. È una priorità strategica.

 

 

 

 

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