LA SCUOLA TI PROMUOVE. IL LAVORO TI METTE ALLA PROVA
Nel 1895 il sedicenne Albert Einstein tentò l’esame d’ingresso al Politecnico di Zurigo… e lo fallì: andò forte in matematica e scienze, ma zoppicò in lingue e storia; su consiglio dei docenti passò un anno alla Kantonsschule di Aarau, prese la Matura nel 1896 e poi entrò al Politecnico.
Dopo la laurea non trovò subito un posto universitario: fu assunto come tecnico all’Ufficio Brevetti di Berna (dal 1902).
Ed è proprio lì, “al lavoro”, che nel 1905 pubblicò quattro articoli destinati a cambiare la fisica, relativi al moto browniano, l’effetto fotoelettrico, la relatività ristretta e, per finire, E=mc². Ad Einstein viene attribuito il motto “il lavoro ti mette alla prova, ma senza istruzione non vai lontano”.
Vorrei iniziare il primo numero di HR Online dopo l’estate con una notizia che non avevamo fatto in tempo a commentare a luglio: i risultati dei test INVALSI 2025. I test, somministrati ad oltre due milioni di studenti dalla primaria alla secondaria di secondo grado, hanno evidenziato criticità diffuse e persistenti in italiano, matematica e inglese.
Alla fine del ciclo di istruzione superiore, circa il 49% degli studenti non raggiunge il livello minimo di competenza in italiano: ciò significa, concretamente, che quasi uno studente su due ha difficoltà a comprendere testi argomentativi o a interpretare informazioni implicite. In matematica il dato è ancora più allarmante: il 55% non raggiunge la soglia di competenza, con picchi superiori al 70% in alcune regioni del Sud. L’inglese mostra risultati leggermente migliori – soprattutto nel reading – ma solo il 52% degli studenti delle superiori raggiunge il livello B2 atteso in quinta, sia nella comprensione scritta sia nell’ascolto.
Il divario territoriale resta una ferita aperta: in Campania, Calabria e Sicilia le percentuali di studenti sotto i livelli minimi superano ampiamente quelle delle regioni del Nord, accentuando il già noto dualismo educativo italiano. Ma anche all’interno delle stesse regioni, le disuguaglianze si amplificano in base al contesto socioeconomico delle famiglie e delle scuole: i punteggi medi degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate sono sensibilmente inferiori a quelli dei coetanei con background più solido, confermando che la scuola italiana fatica a garantire equità educativa.
Un altro dato preoccupante riguarda la dispersione scolastica implicita: tra gli studenti promossi alla maturità, circa il 13% non possiede le competenze minime in italiano e il 16% in matematica. Sono diplomati, ma inadeguati ad affrontare la complessità del mondo del lavoro o degli studi universitari. Il titolo di studio, in altri termini, non garantisce più da solo il possesso effettivo di competenze: è questa una delle fratture più gravi tra sistema formativo e mondo produttivo.
Infine, il trend longitudinale degli ultimi cinque anni mostra un leggero peggioramento nelle competenze di base, malgrado gli investimenti del PNRR e le riforme avviate post-Covid. Segno che le criticità non sono solo congiunturali, ma strutturali. E che servono interventi profondi, sistemici e condivisi.
Le cause del declino del nostro sistema educativo non si esauriscono nell’analisi delle risorse o dei modelli didattici: sono il prodotto di una combinazione pericolosa di fattori culturali, istituzionali e sociali, che hanno progressivamente reso la scuola un sistema autoreferenziale, marginalizzato rispetto alle trasformazioni della società e del lavoro.
Il primo elemento da considerare è il crescente scollamento tra scuola e contesto. Mentre il mondo evolve a ritmi accelerati – spinto dalla transizione digitale, dall’ibridazione delle competenze e da nuove forme organizzative – il sistema educativo italiano continua a muoversi su binari novecenteschi. La didattica rimane in larga parte trasmissiva, centrata sull’insegnamento più che sull’apprendimento, con curricula disciplinari rigidi, poco dialoganti tra loro e scarsamente connessi alla realtà. Le competenze trasversali – oggi decisive per ogni percorso lavorativo, come pensiero critico, collaborazione, gestione dell’incertezza – restano marginali, spesso affidate alla buona volontà di singoli docenti più che ad un impianto sistemico.
A ciò si aggiunge un problema strutturale di orientamento: le scelte scolastiche, specie nella transizione tra medie e superiori, avvengono spesso in assenza di una reale conoscenza delle opportunità e delle prospettive occupazionali. Le famiglie – soprattutto quelle con minore capitale culturale – si muovono in un quadro opaco, mentre la scuola fatica a fornire strumenti di lettura chiari e aggiornati. Il risultato è una segmentazione precoce e spesso penalizzante, con percorsi tecnico-professionali considerati di “serie B” e licei percepiti come unici custodi del merito, nonostante il crescente disallineamento tra contenuti appresi e competenze richieste nel mondo reale.
Un’altra componente da non trascurare è l’inefficienza del sistema nella valorizzazione del capitale professionale dei docenti. L’accesso alla carriera resta rigido, burocratico, scarsamente selettivo e l’aggiornamento professionale – pur formalmente previsto – è in molti casi episodico o privo di impatto. L’assenza di una vera leadership educativa diffusa, capace di guidare l’innovazione metodologica e didattica, rende difficile per molte scuole affrontare le sfide in modo proattivo. Non è un caso se le esperienze di eccellenza sono spesso isolate, figlie di progetti locali e individuali che raramente riescono a diventare pratiche sistemiche.
Infine, la scuola è sempre più chiamata a gestire – spesso senza strumenti adeguati – le disuguaglianze sociali ed educative prodotte da un contesto socioeconomico frammentato. Il venir meno di una visione collettiva dell’istruzione come leva di mobilità sociale ha lasciato spazio a logiche di adattamento: si abbassano le aspettative, si moltiplicano i voti “di incoraggiamento”, si promuove per non escludere. Ma così facendo, si indebolisce proprio la funzione emancipativa della scuola, riducendola a spazio di contenimento più che di crescita. In sintesi, la dequalificazione scolastica non è il frutto di un errore di percorso, ma il sintomo di una crisi profonda di visione e di ruolo. Una scuola che non dialoga con il futuro – né con il mondo del lavoro, né con la società – rischia di perdere la propria legittimità educativa. E in questa perdita, tutto il Paese ha da rimetterci.
La crisi del sistema educativo italiano non si esaurisce però solo entro i confini della scuola: i suoi effetti si propagano lungo tutta la filiera del capitale umano, condizionando la qualità dell’accesso al lavoro, la produttività delle imprese e, più in generale, la competitività del Paese. Il fallimento nella trasmissione di competenze fondamentali produce conseguenze profonde, che non sono solo emergenze scolastiche, ma veri e propri fattori di rischio per il sistema economico.
Il primo effetto è un mismatch sempre più marcato tra le competenze possedute dai giovani e quelle richieste dal mercato. Le imprese segnalano da anni difficoltà crescenti nel reperire profili tecnicamente adeguati, ma oggi il problema si è spostato su un piano più profondo: mancano capacità cognitive e trasversali basilari, come la comprensione di testi scritti, il ragionamento logico-matematico, l’autonomia operativa e l’attitudine alla collaborazione. Non si tratta solo di mancanze “tecniche”, ma di un’assenza di strumentazione mentale per affrontare la complessità.
Questa fragilità si riflette nei processi di selezione e onboarding. Le aziende, soprattutto nei settori ad alta intensità di conoscenza, si trovano costrette a investire tempo e risorse in percorsi formativi di base che, idealmente, dovrebbero essere già stati acquisiti durante la scuola superiore. Anche l’apprendimento on the job diventa più lento e meno efficace, perché manca spesso la predisposizione cognitiva all’apprendimento continuo.
Un altro aspetto critico riguarda la crescente disomogeneità del capitale umano in entrata nel mondo del lavoro. A causa dei forti divari territoriali e socioeconomici nel sistema scolastico, le imprese si trovano a gestire giovani con livelli di preparazione estremamente diseguali, anche a parità di titolo di studio. Questo rende più difficile la progettazione di percorsi standardizzati di sviluppo e onboarding, aumentando la complessità gestionale delle risorse umane e imponendo forme di personalizzazione che non tutte le organizzazioni sono in grado di sostenere.
A ciò si aggiunge un effetto meno visibile ma altrettanto insidioso: la perdita di fiducia nel valore del merito. Se il titolo di studio non corrisponde più a un livello di competenze effettive, si erode la credibilità dell’intero sistema di certificazione e selezione. I datori di lavoro iniziano a privilegiare criteri informali (network, esperienza pregressa, impressioni soggettive) a discapito di criteri oggettivi e trasparenti. Questo meccanismo alimenta nuove disuguaglianze, sfavorisce chi proviene da contesti svantaggiati e penalizza proprio quei giovani che avrebbero più bisogno di regole eque per emergere.
In sintesi, l’inefficacia del sistema scolastico nel garantire competenze reali genera un capitale umano che entra nel mondo del lavoro con un doppio handicap: quello delle competenze deboli e quello della sfiducia sistemica. Le imprese, che dipendono dalla qualità delle persone quanto e più della tecnologia, non possono permettersi di ignorare questa fragilità e non possono nemmeno limitarsi a registrare il problema o a denunciare il mismatch. Il tempo del lamento è finito: il capitale umano non è più un fattore esterno da acquisire, ma un asset strategico da co-costruire. Serve un cambio di paradigma profondo, che trasformi il rapporto tra scuola e impresa da episodico a strutturale, da occasionale a sistemico.
Il primo passo è ripensare il ruolo delle imprese nell’ecosistema formativo. Le aziende possono (e dovrebbero) partecipare attivamente ai percorsi di orientamento scolastico, contribuendo a restituire ai giovani una visione realistica, aggiornata e plurale del lavoro. Testimonianze, open day, laboratori e visite aziendali non sono semplici iniziative di employer branding, ma strumenti di cittadinanza economica, attraverso cui i ragazzi cominciano a comprendere linguaggi, logiche e competenze del mondo produttivo.
In secondo luogo, è cruciale rafforzare il rapporto con le scuole secondarie superiori e gli ITS, sostenendo progetti di alternanza di qualità, co-progettando moduli didattici, offrendo tutoraggio e mentoring. Dove questo accade – come mostrano le esperienze virtuose di alcune filiere industriali e distretti territoriali – il livello di competenza e occupabilità dei diplomati cresce sensibilmente. La logica non è solo quella del “placement”, ma della costruzione condivisa di professionalità coerenti con i bisogni reali dei contesti produttivi.
Allo stesso tempo, le imprese devono assumere un ruolo attivo nella formazione continua anche a valle dell’assunzione. In un mercato in cui la scuola non garantisce più competenze pienamente “ready to work”, l’azienda deve dotarsi di solide infrastrutture formative interne: programmi di onboarding più lunghi e strutturati, percorsi di upskilling e reskilling, strumenti di valutazione delle soft skill, coaching e affiancamento per il potenziamento delle competenze trasversali. Il talento non va solo individuato, va coltivato.
Ma l’azione delle imprese non si esaurisce nella sfera educativa: serve anche un nuovo attivismo istituzionale. Le associazioni datoriali, i grandi gruppi e i soggetti più innovativi del tessuto imprenditoriale devono farsi promotori di alleanze territoriali per l’educazione, contribuendo a orientare le politiche formative, a sostenere la formazione dei docenti, a promuovere la cultura delle competenze come bene collettivo.
Infine, c’è una dimensione culturale che le imprese devono presidiare: quella del merito, dell’apprendimento continuo, dell’inclusione. Solo se questi valori diventano parte dell’identità organizzativa l’azienda diventa capace di attrarre, trattenere e sviluppare talenti – non solo quelli “eccellenti”, ma anche quelli latenti, fragili, in potenza. Perché oggi, più che mai, ogni persona conta.