MIDDLE MANAGER TRA SCILLA E CARIDDI
Un CEO, un middle manager e un neolaureato trovano una lampada magica. Esce il genio: “Avete un desiderio a testa!”
Il neolaureato esclama: “Voglio andare alle Maldive, cocktail in mano, niente più report!” — Puff, sparisce.
Il middle manager: “Io voglio andare a Bali, senza mail, senza call, solo pace!” — Puff, sparisce anche lui.
Il CEO guarda il genio e dice:
“Voglio che quei due tornino in ufficio prima delle 9 domattina.”
C’era un tempo in cui il middle manager era il perno silenzioso dell’organizzazione: né troppo in alto da respirare l’aria rarefatta della vision né troppo in basso da dover timbrare. Gestiva, mediava, controllava, incassava. Lo si lasciava fare, come si fa con un tecnico esperto: non particolarmente celebrato, ma necessario. Poi sono arrivati i webinar sul purpose, le riunioni asincrone, il feedback continuo, il quiet quitting, l’intelligenza artificiale generativa, i piani di upskilling trimestrale, i cruscotti di people analytics e, ovviamente, i collaboratori “che cercano un senso, non un lavoro”.
Secondo l’ultima edizione del report Deloitte Global Human Capital Trends 2025, il 75% delle organizzazioni ritiene che i propri manager siano oggi sovraccarichi di aspettative, mentre il 70% riconosce che i programmi di sviluppo messi in campo non li preparano ad affrontare un contesto che richiede, in ordine sparso: capacità strategica, leadership empatica, competenze digitali, resilienza emotiva, visione del cambiamento e attitudine al coaching. Il tutto, possibilmente, con un atteggiamento positivo e collaborativo. Più che manager, ormai si richiedono supereroi.
Nel frattempo sul versante opposto, quello dei “gestiti”, non è che la situazione sia molto più rosea. Secondo State of the Global Workplace 2024 di Gallup, solo il 23% dei lavoratori a livello globale si sente realmente coinvolto nel proprio lavoro. Una cifra che dovrebbe far riflettere quanti ancora credono che basti un onboarding brillante o una newsletter interna per creare engagement. E chi è il principale responsabile del coinvolgimento, secondo le stesse ricerche? Proprio loro: i manager, quegli stessi che stanno lottando per non essere travolti dalla complessità, in un ruolo che richiede sempre più responsabilità, ma che al tempo stesso offre sempre meno autonomia e riconoscimento.
Stiamo chiedendo ai manager di incarnare una leadership trasformativa, ma senza fornire loro il tempo per pensare, gli strumenti per agire e la fiducia per sperimentare. Li formiamo a parlare di inclusione, ma poi li valutiamo solo sui numeri. Li invitiamo a essere coach, ma non li liberiamo dal peso dell’operatività quotidiana. In questo cortocircuito sistemico, il rischio non è solo la fuga dei migliori, ma la desertificazione della funzione stessa. Perché oggi sempre più spesso chi può scegliere sceglie di non diventare manager. Il middle manager, infatti, si percepisce, sempre di più, stretto tra Scilla e Cariddi. Da un lato, un’alta direzione che chiede risultati sempre maggiori, dall’altro una popolazione aziendale sempre meno propensa a dare in modo incondizionato. Forse è il momento di smettere di riformare i manager a colpi di slide e iniziare a ripensare davvero al loro ruolo nell’organizzazione. Ridisegnarlo, alleggerirlo, restituirgli dignità e prospettiva. O accettare l’idea che, tra qualche anno, l’unico middle manager rimasto sarà un algoritmo. Sempre disponibile, sempre lucido, ma drammaticamente privo di empatia.