RIDARE VALORE AL LAVORO
Qualche anno fa, in una media impresa manifatturiera del Veneto, un dirigente mi raccontò che un operaio, da mesi, ogni giorno all’uscita del lavoro si fermava davanti alla macchinetta del caffè, non per bere qualcosa, ma per scrivere sul suo telefono, in silenzio, per dieci minuti. Pensando fosse un problema personale, il dirigente gli chiese un giorno se andasse tutto bene. L’operaio sorrise e rispose: “Scrivo la mia giornata, tengo il conto di quanto produco, di quando mi sono dovuto fermare, di quanto è colpa mia e quanto no. Così almeno io lo so. Perché qui, nessuno lo sa mai”.
Quella risposta mi colpì molto più di tanti report sulla produttività. Il Primo Maggio quest’anno è arrivato con un sottofondo amaro. I numeri sono eloquenti: dal 1990 al 2023 i salari reali in Italia sono cresciuti di appena il 2%, a fronte di una media europea che ha visto aumenti ben più consistenti: +30% in Germania, +40% in Francia, +50% in Irlanda (fonte: OCSE e Eurostat). Siamo il solo Paese OCSE, insieme alla Grecia, in cui il potere d’acquisto è rimasto pressoché fermo per oltre trent’anni. È una stagnazione che alimenta sfiducia, disaffezione e – per i più giovani – anche una crescente distanza psicologica dal lavoro come fonte di autonomia e di futuro.
Tuttavia, anche in questo scenario difficile, c’è uno spazio concreto di azione che non dipende dalle leggi o dalle dinamiche macroeconomiche, ma dalla capacità delle singole imprese di rimettere al centro il valore del lavoro, e di farlo in modo serio, tangibile, senza proclami. Perché, se è vero che non tutte le aziende possono aumentare drasticamente gli stipendi, è altrettanto vero che molte possono fare di più – e di meglio – per accrescere il valore reale del salario percepito dai lavoratori.
La prima leva, spesso trascurata, è quella della produttività. Non intesa come richiesta astratta di “fare di più”, ma come capacità organizzativa di liberare energie, ridurre sprechi e moltiplicare l’efficacia di ogni ora lavorata. Aumentare la produttività significa creare le condizioni per una redistribuzione più generosa e sostenibile. Quando le persone sono messe in condizione di lavorare bene – con strumenti adeguati, con obiettivi chiari, in contesti motivanti e privi di burocrazia inutile – il valore generato cresce. E se cresce, può essere condiviso.
Tutto questo, però, richiede un salto culturale: passare da una logica in cui il costo del lavoro è solo un vincolo da contenere, a una visione in cui il lavoro è un investimento che genera ritorno, anche economico. E questo ritorno, se ben gestito, può diventare un’occasione di equità interna. Non serve attendere contratti collettivi o riforme fiscali per rendere più giusta la distribuzione degli incentivi: le imprese possono già oggi ripensare le loro politiche premiali, allargando il perimetro del riconoscimento, superando una logica ristretta e gerarchica del merito.
In questo senso, è interessante osservare che il Parlamento italiano si appresta a discutere una proposta di legge – in parte ispirata al modello tedesco – che punta a rafforzare la partecipazione dei lavoratori alla vita economica e organizzativa dell’impresa, seppur tra molti vincoli e limitazioni. Non solo partecipazione agli utili, ma anche alle scelte che impattano sul lavoro. Un segnale, seppur ancora iniziale, di una possibile svolta nella cultura d’impresa italiana, troppo spesso ancora legata a modelli verticali, autoreferenziali, e a una visione passiva del lavoro dipendente. Se questa legge vedrà la luce, il suo impatto dipenderà non tanto dalla norma in sé, quanto dalla disponibilità delle imprese a coglierne il potenziale trasformativo.
Ma il potere d’acquisto dei salari non è solo questione di denaro. È anche, sempre più spesso, una questione di costi evitati. Un’organizzazione che favorisce la flessibilità intelligente, che riduce gli spostamenti inutili, che consente alle persone di gestire meglio il proprio tempo, produce un guadagno invisibile ma concreto. Così come lo producono un welfare aziendale ben progettato, accessibile e modulabile, o l’attenzione a quei piccoli “dettagli” che alleggeriscono la vita quotidiana: dai buoni spesa ai contributi per l’istruzione dei figli, dalla copertura sanitaria a un aiuto sul trasporto.
Non si tratta di “regali”, ma di un nuovo patto implicito tra impresa e lavoratore. Un patto che si fonda sulla fiducia, sull’ascolto, sulla capacità di leggere le priorità di chi lavora e di agire su ciò che conta davvero. In questo senso, dare voce ai lavoratori – non solo nei sondaggi, ma nei processi reali di scelta e di progettazione delle politiche interne – è un investimento che torna. Anche sul piano economico.
Il rischio, oggi, è che il lavoro perda attrattiva non perché mancano le opportunità, ma perché manca la percezione che valga la pena impegnarsi. Ristabilire questa fiducia passa anche dalla retribuzione, certo, ma soprattutto da un’idea diversa di retribuzione: più ampia, più giusta, più coerente con la vita reale.
Abbiamo appena trascorso un Primo Maggio in cui il Presidente della Repubblica ha richiamato tutto il Paese sul tema del potere d’acquisto dei salari (insieme con quello della sicurezza). In un periodo che sembra parlare più di incertezza che di diritti conquistati, forse il gesto più concreto che un’azienda può fare è rimettere in discussione il proprio modo di “dare valore” al lavoro. Perché dove si produce più valore, e dove lo si riconosce meglio, anche il salario – reale e simbolico – torna a pesare di più.
Il Primo Maggio non è il giorno della nostalgia, ma della responsabilità. Non possiamo più limitarci a dire che i salari non bastano: dobbiamo chiederci cosa possiamo fare, oggi, per renderli più giusti. Non è solo una questione economica. È una questione di rispetto, di alleanza, di futuro.