QUANDO LE DONNE NON AIUTANO LE DONNE

 da DIREZIONE DEL PERSONALE

In tutta la UE le donne rappresentano il 34% dei membri dei Consigli di amministrazione delle più grandi società quotate in borsa. In Italia, grazie soprattutto alla legge Golfo – Mosca del 2011, la percentuale di donne nei CdA è del 43,1%, ponendo il nostro Paese al terzo posto in Europa, dopo Francia e Spagna. Malgrado questa presenza significativa, la percentuale di donne CEO è pari al 4% e quella dei CFO al 6%, più o meno in linea con la situazione di dieci anni fa. In UE la quota è pari al 7,3% e al 16,6%, rispettivamente. Dati alla mano, dobbiamo constatare che la legge Golfo – Mosca ha aiutato alcune centinaia di donne a ottenere un posto nei Consigli che altrimenti avrebbero fatto fatica a raggiungere, ma non ha determinato un significativo cambiamento nel gender gap in termini di assetti organizzativi di vertice. Le donne sono sempre emarginate negli ambiti HR, considerati di “cura delle persone”, o di comunicazione, dove, è triste dirlo, probabilmente l’empatia e la bella presenza sono considerate doti vincenti. Sicuramente le aspettative iniziali suscitate dalla legge del 2011 non hanno alla fine trovato soddisfacente realizzazione. Questo per molteplici motivi. Forse si è peccato d’ingenuità pensando che qualche presenza aggiuntiva in un Consiglio di amministrazione fosse sufficiente per modificare culture e comportamenti stratificati nel lungo periodo. D’altro canto, le imprese sono lo specchio della società in cui vivono ed è difficile pensare che si possano modificare in modo profondo indipendentemente da questa. Forse, ancora, alcune colleghe avrebbero potuto fare di più e non hanno osato. In ogni caso, i dati sono incontrovertibili. Una significativa iniezione di donne nei Consigli di amministrazione non ha sortito gli effetti sperati.
Se vogliamo ora superare questo primo aspetto relativo al rapporto tra CdA e vertici aziendali e guardare il mondo delle imprese nel suo complesso, dobbiamo notare che in molte organizzazioni moderne, soprattutto in quelle che ambiscono a presentarsi come inclusive, è difficile immaginare la discriminazione tra donne come un fenomeno ancora reale e diffuso. Eppure, sotto traccia, spesso dissimulata da linguaggi sofisticati o pratiche aziendali formalmente neutrali, questa forma specifica di ostilità o distanziamento tra donne continua a produrre effetti silenziosi ma significativi sulla carriera, sul benessere e sulla fiducia reciproca tra professioniste. Il tema è delicato, talvolta scomodo, spesso sottovalutato perché contrasta con l’immagine rassicurante della “solidarietà femminile”, ma merita attenzione perché svela meccanismi organizzativi e psicologici profondi.
Uno degli approcci teorici più discussi è quello della cosiddetta Queen Bee Syndrome, (sindrome dell’ape regina), introdotto negli anni Settanta e ripreso in numerose ricerche successive. La sindrome descrive il comportamento di alcune donne che, una volta raggiunta una posizione di prestigio in contesti professionali dominati da uomini, tendono a prendere le distanze dalle colleghe più giovani o meno affermate, fino a ostacolarne la crescita o a svalutarne il contributo. Questo atteggiamento, interpretato da alcuni come una forma di auto-difesa, nasce spesso dal tentativo di adattarsi a un sistema di regole maschili interiorizzate come necessarie per sopravvivere. Non si tratta dunque semplicemente di cattiva volontà o rivalità personale, ma di una forma di adattamento strategico a un contesto che lascia poco spazio a modalità alternative di leadership e carriera.
Nel mondo accademico, ad esempio, una ricerca pubblicata nel British Journal of Social Psychology ha mostrato come in ambienti in cui le donne si sentono minoranza e percepiscono di dover lottare duramente per affermarsi, la distanza dalle altre donne può diventare un modo per proteggere la propria legittimità . Alcune dirigenti senior, quando si trovano ad essere le uniche donne nella stanza, tendono inconsciamente a rifiutare l’identificazione con il proprio gruppo di genere, preferendo allinearsi con le norme del gruppo dominante. Questo comportamento, tuttavia, rafforza la logica dell’eccezionalità individuale (“io ce l’ho fatta, quindi anche le altre possono farcela da sole”) e contribuisce a riprodurre l’isolamento delle donne nei ruoli di vertice.
Va detto che la sindrome dell’ape regina è oggi oggetto di forti critiche. Alcuni studi recenti sottolineano come il fenomeno sia spesso sovrastimato o addirittura frainteso. In molte organizzazioni, le donne in posizione di potere si rivelano mentori attive, promotrici di inclusion e sponsor di carriere femminili. Quando però la cultura organizzativa è profondamente competitiva, gerarchica, e fondata su criteri di valutazione opachi o discrezionali, le relazioni solidali diventano più fragili, e la tentazione di proteggere il proprio spazio, anche a costo di escludere altre donne, si fa più forte. In questi casi, il problema non è tanto la presenza di donne che discriminano altre donne, quanto la natura del sistema che rende tale comportamento possibile e, in certi casi, vantaggioso.
Un ulteriore elemento da considerare è la teoria del tokenism, sviluppata da Rosabeth Moss Kanter. Quando una donna si trova ad essere “l’unica” o una delle pochissime in un certo contesto – il cosiddetto token – tende a vivere un’iper-visibilità che la espone al giudizio costante. In queste condizioni, anche solo il sospetto di essere percepita come “di parte” se sostiene un’altra donna può bastare a inibire comportamenti collaborativi. La paura di compromettere la propria posizione o la propria immagine può spingere le donne a adottare strategie di distacco, apparentemente fredde o competitive, ma in realtà difensive.
Non è da trascurare, infine, il ruolo degli stereotipi interiorizzati. In un contesto culturale in cui per decenni si è sostenuto, più o meno esplicitamente, che certe posizioni fossero più adatte agli uomini, anche le donne possono, spesso inconsapevolmente, assimilare visioni e pregiudizi di stampo androcentrico. Ciò può tradursi in una tendenza a valutare le colleghe con maggiore severità, a pretendere standard più elevati o a riservare alle donne giudizi più critici rispetto agli uomini, a parità di comportamenti o risultati. Da un’indagine del Workplace Bullying Institute (WBI), un centro di ricerca statunitense specializzato sul fenomeno del mobbing, è emerso che, quando le donne sono autrici di atti di prepotenza o vessazione in ambito lavorativo, circa l’80% delle volte prendono di mira altre donne. Al contrario, quando sono gli uomini a perpetrare atti di bullismo, circa il 65% delle volte le vittime sono uomini, e solo il 35% donne. La scienza sociale ha ampiamente dimostrato che il sessismo può essere anche “al femminile”, non perché le donne siano meno solidali degli uomini, ma perché nessuno è immune ai condizionamenti culturali in cui cresce e lavora.
Il nodo, quindi, non sta tanto nella natura delle relazioni tra donne, quanto nell’ambiente che le struttura. Quando il contesto organizzativo promuove la cooperazione, valorizza la pluralità degli stili di leadership, e garantisce trasparenza nei processi decisionali, la competizione disfunzionale e i comportamenti escludenti tendono a ridursi. Al contrario, in ambienti dominati dalla scarsità di opportunità, dalla logica dell’eccezionalismo e da modelli di successo codificati al maschile, anche le donne più aperte possono essere spinte a chiudersi, a difendersi, e a percepire le altre come una minaccia anziché come un’alleanza possibile.
Sarebbe ingenuo ignorare il fatto che alcune donne, per motivi personali o strategici, scelgono consapevolmente di non sostenere le altre. Ma sarebbe altrettanto superficiale attribuire questi comportamenti a una sorta di “invidia femminile” naturale o a una mancanza di solidarietà intrinseca. La realtà è più complessa e ci impone di guardare oltre gli stereotipi, interrogando i modelli organizzativi, le narrazioni dominanti, le strutture di potere che ancora oggi rendono difficile, per molte donne, sostenere le altre senza mettere a rischio sé stesse.

 

 

 

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