UN’INASPETTATA OPPORTUNITA’ PER FARE INNOVAZIONE NELLE NOSTRE IMPRESE

 da HR ONLINE

Si racconta che una volta Rita Levi-Montalcini, in risposta a una domanda su come fosse riuscita a lavorare in un piccolo laboratorio domestico con mezzi di fortuna durante le leggi razziali, disse:
— “Non avevo strumenti, non avevo finanziamenti, ma avevo la libertà di sperimentare. E, soprattutto, la determinazione a non fermarmi.”
Poi aggiunse:
— “Il vero miracolo, però, è stato ottenere un laboratorio in Italia anche dopo il Nobel.”
Oggi abbiamo un’inaspettata occasione per dare una svolta a questa decennale consuetudine. Dal suo insediamento nel gennaio 2025, il presidente Donald Trump ha avviato una drastica politica di riduzione dei finanziamenti pubblici alla ricerca e alle università statunitensi. Nonostante alcuni provvedimenti siano ancora sospesi nei tribunali, l’onda lunga del disinvestimento scientifico è già realtà, soprattutto per i giovani ricercatori e dottorandi, i cui stipendi dipendono in gran parte dai fondi pubblici.
Un sondaggio condotto dalla rivista Nature mostra che circa il 75% dei ricercatori americani interpellati sta seriamente considerando di lasciare il Paese. Un segnale d’allarme confermato anche da un editoriale di Science, che documenta un esodo già in corso verso l’Europa e il Canada. La Max Planck Society in Germania e il Politecnico federale di Zurigo segnalano un aumento sostanziale delle candidature da parte di ricercatori statunitensi, attratti da un ambiente più stabile e maggiormente finanziato.
La preoccupazione maggiore è per la “deep tech”, l’insieme di tecnologie avanzate che rappresentano il cuore dell’innovazione americana. Senza un sostegno federale solido e duraturo, gli scienziati-imprenditori – coloro che trasformano le scoperte scientifiche in start-up – rischiano di essere espulsi dal sistema. Il rischio? Una perdita secca di competitività economica e di sicurezza strategica per gli Stati Uniti.
Italia: spettatrice o protagonista?
Questo sconvolgimento globale del panorama scientifico rappresenta un’opportunità unica per i Paesi europei. E tra questi l’Italia potrebbe ritagliarsi un ruolo da protagonista, offrendo accoglienza a ricercatori in fuga dagli USA. Il nostro sistema produttivo, spesso penalizzato da un divario tra ricerca accademica e innovazione industriale, trarrebbe enormi benefici dall’arrivo di cervelli internazionali, capaci di portare know-how, connessioni globali e nuove competenze nei settori strategici.
Eppure i numeri dicono altro. L’Italia ospita solo il 3,4% dei ricercatori stranieri presenti nell’Unione Europea, contro il 18,5% della Germania e il 13% della Francia. Il Global Talent Competitiveness Index 2024 ci colloca al 35° posto nella classifica mondiale per attrattività dei talenti. Inoltre, secondo il rapporto Science, Technology and Innovation Outlook dell’OCSE, solo il 15% degli studenti di dottorato in Italia è straniero, contro il 26% in Francia e oltre il 30% nel Regno Unito. La percezione diffusa tra gli accademici stranieri è che il nostro Paese sia meno attrattivo per via di stipendi poco competitivi, precarietà contrattuale, burocrazia complessa e scarsa integrazione tra università e impresa. Le grandi imprese italiane o delle ATI favoriti da enti intermedi potrebbe provare a inserirsi in questa dinamica
Una strategia (possibile) per invertire la rotta
La situazione americana crea una finestra di opportunità limitata nel tempo. Paesi come la Svizzera stanno già agendo, potenziando i canali di attrazione internazionale e presentandosi come rifugi per la ricerca di qualità. L’Italia, per cogliere questo momento, dovrebbe investire in politiche mirate: semplificazione delle procedure di ingresso per i ricercatori, finanziamenti per programmi di rientro o attrazione dall’estero, accordi tra università e imprese per percorsi di carriera stabili e integrati.
Anche senza attendere fondi pubblici o grandi riforme, le imprese italiane – comprese le medie aziende, cuore vitale del nostro sistema produttivo – potrebbero attivarsi da subito.
Come? Ad esempio, offrendo percorsi mirati per attrarre giovani ricercatori internazionali, anche per progetti di breve durata, con obiettivi chiari e condivisi: sviluppo di nuovi prodotti, analisi di processi, implementazione di tecnologie già mature, ma non ancora applicate. Basta spesso una collaborazione di sei mesi per introdurre know-how prezioso e mettere in circolo idee nuove.
Un’altra strada è la co-progettazione con università estere, anche solo su scala europea, per accogliere visiting researcher o post-doc, in collaborazione con i propri team interni. In molti casi, si tratta di investimenti accessibili – soprattutto se confrontati con i benefici attesi in termini di innovazione e posizionamento competitivo.
La nuova geografia della scienza non si costruisce solo nei ministeri o nei grandi poli di ricerca, ma anche nelle sedi delle nostre PMI, dove spesso l’intuizione e la concretezza possono fare la differenza.
Se l’Italia istituzionale fatica ad attrarre cervelli, l’Italia imprenditoriale può iniziare a farlo da sé. E diventare, silenziosamente, un punto di riferimento per chi oggi cerca un’alternativa al disinvestimento scientifico americano. La ricerca non è solo un investimento in conoscenza, è un’assicurazione sul futuro dell’impresa. E oggi, quel futuro bussa già alla nostra porta: basta avere il coraggio di aprirla.

 

 

 

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