L’ARROGANZA DEL POTERE. IL RIDICOLO SENZA VERGOGNA
Aveva terminato gli studi all’accademia di arte drammatica da parecchio tempo. Accadeva spesso che gli chiedessero del suo lavoro. Con imbarazzo rispondeva: faccio l’attore. Ma sapeva che subito dopo sarebbe arrivata la domanda più difficile: dove reciti? Farfugliando sussurrava che era in attesa di una parte, ma il telefono non suonava mai né qualcuno lo cercava, neppure per un provino. Fu in un pomeriggio in cui tentava di non pensarci più che suonò il telefono e dall’altra parte una voce gli disse: è lei l’attore? Sì, sono io rispose, col cuore in gola. Avremmo una parte da proporle per… Certo, certo, va bene, va bene, rispose trafelato. Ma no, aspetti, si tratta di una piccola parte… Accetto, accetto, va bene. Deve recitare la parte di un maggiordomo nella seconda scena del terzo atto di una commedia… Sicuro, certo, sento che è la mia parte!… Ma guardi che si tratta di poco meno di un minuto in cui entrando in scena deve aprire una porta e vedendo un uomo a terra deve dire una sola battuta: “cielo, un cadavere!”. Ma è perfetto, accetto immediatamente, attendo il copione, le detto l’indirizzo e attendo per le prove. Nei tre mesi successivi, tra prove e ripassi del copione, l’attore andava in giro per casa e per la strada ripetendo la battuta in varie versioni recitative: Cielo un cadavere! Cielo un cadavere! e simulava le diverse posture per preparare la propria entrata in scena. La sera della prima era agitato fino all’inverosimile e non stava nella pelle per riuscire a fare finalmente l’attore. Dovette attendere gli interminabili primi due atti e la prima scena del terzo atto. Quando arrivò il suo momento aveva il cuore in gola e finalmente gli fecero cenno che toccava a lui. Aprì la porta ed entrando in scena, alla vista dell’uomo a terra esclamò: cazzo, un morto!
Mentre il riso e il comico sono il successo dell’inatteso, il ridicolo e l’imbarazzo sono il fallimento dell’atteso. Mentre il riso e la risata, il comico e l’umoristico sono un lampo nel buio, un’esplosione del senso, il ridicolo si propone come una rovina del senso, una dinamica rovinosa rispetto alle aspettative.
Traggo l’aneddoto ed il suo commento da un bellissimo articolo del 2017 di Ugo Morelli, “Il riso e la sua ombra/Ridicolo, vergogna, imbarazzo”. Mi sovviene perché in uno strano paese vi sono persone che si prendono molto sul serio fino a quando ci sono persone disposte a dar loro credito.
Accade così che un ministro di questo strano paese prenda un treno, un FrecciaRossa e, poiché deve fermarsi a Ciampino, chieda (e ottenga) che il treno ad alta velocità si fermi dove più gli garba. Paradossalmente, non è questo che mi stupisce quanto il fatto che poi se ne vanti. “Nessun trattamento di favore, ho agito nel pieno rispetto delle regole, lo rifarei mille volte”. Un paio di settimane fa dovevo andare a Reggio Emilia e prendendo lo stesso treno ho chiesto al capotreno uguale trattamento, vi lascio immaginare la risposta.
Accade poi che un ex ministro, uomo ancora assai potente, trovandosi in una profumeria ed essendo assai impicciato con cellulare e bagaglio, decida che il posto migliore per mettere un profumo sia la tasca della sua giacca. Quando viene fermato, emulo del suo collega ferroviere, non ha alcun dubbio e pronuncia le fatidiche parole “Lei non sa chi sono io!”
Come diceva Morelli, il comico è il lampo nel buio (“cazzo, un morto!”) il ridicolo è solo la rovina del senso. Chi arriva a gestire il proprio ruolo pensando di potersi permettere certi atteggiamenti dovrebbe avere il buongusto di fare un passo indietro.
Vale per i potenti, ma vale per chiunque possa avere un briciolo di potere all’interno di un’organizzazione. Vorrei lasciare i miei pochi lettori con il ricordo di un mio capo a cui devo moltissimo. Ero al Reader’s Digest, ero appena stato assunto come Direttore del Personale (allora di diceva così). Lui era il direttore Amministrativo. Io ero molto giovane, lui uomo di grande umanità e grande esperienza. Ci trovavamo tutte le mattine al bar per fare colazione e pianificare la giornata e poi ci ritrovavamo la sera per commentarla. Dopo due o tre mesi che ero in azienda, una sera ci incontriamo in corridoio pronti per uscire. Nel palazzo non c’era più quasi nessuno. Andando verso l’ascensore incrociamo la signora che faceva le pulizie. Entrambi la salutiamo.
Mentre stiamo entrando in ascensore, indicandola da lontano, senza farsi sentire, mi chiede:
– “Sai come si chiama?”
– No, francamente, no”
– Hai ancora molto da imparare per fare il capo del personale”
Quel ceffone mi è sempre rimasto impresso e ancora ringrazio il mio vecchio capo per avermelo dato.
Paolo Iacci, Presidente Eca, Università Statale di Milano