La richiesta di felicità irrompe nei luoghi di lavoro

 da HR ONLINE

Il Paradiso comincia ad essere affollato così San Pietro decide di accettare solo le persone che se la sono vista davvero brutta il giorno della loro morte. Il giorno in cui viene inaugurata la nuova politica, San Pietro chiede al primo della fila: “Parlami del giorno in cui sei morto”.

L’uomo racconta: “Oh, è stato terribile. Ero sicuro che mia moglie avesse una relazione, così sono tornato a casa prima dal lavoro per coglierla sul fatto. Ho cercato per tutto l’appartamento e non sono riuscito a trovare il suo amante da nessuna parte. Così, alla fine, sono uscito sul balcone e ho visto un uomo appeso al bordo della ringhiera per la punta delle dita. Sono tornato dentro, ho preso il martello e ho cominciato a picchiarlo sulle mani. È caduto, ma è finito su alcuni cespugli: era ancora vivo. Così sono entrato in casa, ho sollevato il frigorifero e l’ho spinto di sotto. Quell’uomo l’ho spiaccicato, ma lo sforzo che ho fatto per sollevare il frigorifero mi ha fatto venire un infarto. Ed eccomi qui”.

San Pietro non può negare che se la sia vista davvero brutta e che il suo era stato un delitto passionale, così lo lascia entrare in Paradiso. Quindi fa la stessa domanda al secondo della fila.

“Beh, signore, è stato terribile – dice questo – Stavo facendo aerobica sul balcone del mio appartamento quando sono scivolato oltre il bordo. Sono riuscito ad aggrapparmi alla ringhiera di quello del piano inferiore ma un maniaco è uscito dall’appartamento e ha cominciato a martellarmi le dita! Sono caduto e sono atterrato su dei cespugli, tutto ammaccato ma vivo. Ma quel tizio si è affacciato di nuovo al balcone e mi ha tirato addosso un frigorifero. Sembra incredibile, ma è andata proprio così”.

San Pietro ridacchia tra di sé e lo fa entrare in Paradiso. Poi chiede al terzo della fila di raccontargli il giorno della sua morte.

“D’accordo – comincia – immagini la scena: sono nudo, nascosto in un frigorifero…”

Con la pandemia, nelle nostre case nel lungo periodo appena trascorso sono successe molte cose, ma molte ne devono ancora succedere.

Tra aprile e giugno di quest’anno ci sono state 484 mila dimissioni spontanee. Lo stesso numero, più o meno, si è ripetuto nel trimestre successivo. Si tratta di un incremento del 37% rispetto al normale trend. Lo stesso fenomeno, con volumi assai più consistenti, si sta verificando negli Stati Uniti e in molti altri Paesi industriali avanzati. Si parla di “Great Resignation”. Fa impressione perché si accompagna a un periodo di contrazione della base occupazionale e viene immediatamente dopo un lungo periodo di prolungata crisi economica da cui non siamo ancora usciti.

Occorre, nel contempo, notare che vi sono anche altre condizioni oggettive meno sfavorevoli. Le banche nazionali ci dicono che le famiglie negli ultimi due anni hanno speso molto poco e le banche non sono mai state così piene di liquidi. Gli Stati nazionali, inoltre, hanno annunciato forti investimenti per politiche di welfare e di sostegno.

Le motivazioni alla base della Great Resignation sono varie. Prima di tutto la pandemia ha spinto la grande maggioranza delle persone a riflettere sulla propria vita e a ridefinirne le priorità. La salute, la famiglia, gli affetti e la felicità vengono considerati molto più importanti del semplice successo lavorativo fine a se stesso. Nel mondo contemporaneo il produrre è divenuto un dovere. Prima abbiamo celebrato il lavoro come mezzo di sviluppo infinito e di benessere, ma poi ne siamo divenuti vittime. Dalla pandemia emerge la necessità di un profondo ripensamento della nostra vita, di come la conduciamo e di che cosa ci possiamo aspettare nel prossimo futuro. Molti si stanno ritraendo da un mondo del lavoro che si sta mostrando poco attento alle necessità del singolo. Si prende tempo per riflettere. È il segno di uno spaesamento, non ancora finalizzato. Vi è una richiesta di motivazione, di engagement profondo a cui le imprese non riescono per ora a dare una risposta convincente.

A questa richiesta diffusa di senso dell’esperienza lavorativa si aggiunge un burnout collettivo che in misura più o meno accentuata, sta toccando una fetta consistente della popolazione attiva, come probabilmente non succedeva da decenni. Alcune ricerche, negli USA e in UK, stimano che questo burn out collettivo stia toccando il 40 o addirittura il 50% della popolazione attiva. Si tratta di stime che non hanno a mio avviso alcuna base scientifica, ma che danno la misura di un fenomeno ampio e preoccupante. Il burnout è uno stato di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale. Si tratta di una sindrome di stress lavorativo che non si è in grado di gestire con successo e che quindi porta facilmente ad un abbandono del posto di lavoro come unica scelta possibile davanti all’impossibilità di gestire altrimenti una situazione di sofferenza troppo forte.

In questi giorni è uscito nelle librerie un mio libro, Dialogo con Umberto Galimberti su Lavoro e Felicità. Chiedo scusa per il conflitto di interessi. Ma è inutile che ci giriamo intorno. Questo è esattamente il punto. La gente sta male, dà le dimissioni, se ne va dalle aziende perché per la prima volta in modo chiaro il tema della felicità irrompe nel mondo del lavoro. Un manager, un tecnico o un professionista che si pone questo tema fino a ieri lo avrebbe fatto vergognandosene. Oggi lo fa alla luce del sole e se non ne è convinto della risposta che si sta dando, si prende del tempo per pensarci.

Le imprese su questo tema sono in ritardo, non lo stanno comprendendo. Gli hr hanno una grande responsabilità. Devono spiegare ai responsabili di linea e alle direzioni generali cosa sta succedendo. È in atto una rivoluzione antropologica. Particolarmente evidente per i giovani della generazione z, ma trasversale su tutte le generazioni, seppure in forme e con evidenze differenti.

Oggi il tema della felicità non è più procrastinabile. È una colpa? Personalmente credo di no.

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