IL PARADOSSO DELL’IMPRENDITORE

 da HR ON LINE

“Un piccolo imprenditore ebreo italiano nel 1938 fu colpito, come tutti gli israeliti, dalle leggi antisemite, delle quali s’è parlato l’anno scorso, a 80 anni dalla loro promulgazione. Molti non sanno che nel 1942 furono emanate nuove leggi razziali, che tra l’altro davano agli ebrei lo status di ‘nemici’ sino al termine del conflitto e sottraevano loro la proprietà delle aziende. Il tizio fu costretto, come molti, a vendere l’impresa a un prezzo infimo, con regolare atto notarile. Il che fece, a causa dei tempi strettissimi, rivolgendosi a un noto industriale e confindustriale biellese e a un fidato operaio (50% l’uno). L’intesa, ovviamente orale, era che alla fine della persecuzione i finti acquirenti avrebbero restituito il tutto al padrone originario. Più di tre anni dopo il nazismo e il fascismo scomparvero nel disonore e nella rovina. Il 27 aprile 1945 l’operaio (comunista) si presentò spontaneamente e ridiede la sua parte allo stesso prezzo nominale dell’acquisto, minimo e falsificato dall’inflazione. L’imprenditore pretese il pagamento del valore reale della sua metà, dopo una perizia, strappando anche un super-profitto giustificato dal fatto che col suo 50% avrebbe potuto rendere ingestibile la proprietà. Evito ogni commento su questo fatterello, che – in tragiche e ben più gravi tragedie collettive – segnala che la distribuzione dell’etica e del potere economico-sociale sono spesso inversamente correlate. Aggiungo che quel tizio era mio padre, il quale nel triennio della Resistenza aveva fatto il partigiano e che negli anni seguenti avrebbe regalato ai contadini le terre di famiglia (da vero socialista qual era). Sono stato, anni fa, ai funerali dell’operaio comunista. Vennero suonate dalla banda locare ‘Bella ciao’, ‘Bandiera rossa’, ‘L’Internazionale’: ma, per accordo preventivo col prete del paesino della Bassa Mantovana, non nelle vicinanze della chiesa parrocchiale. Una storia italiana”.

Chi scrive è Enrico Finzi, Presidente di Sòno Human Tuning, intellettuale raffinato, da sempre acutissimo ricercatore sociale e giornalista. Finzi ci racconta un fatto che dovrebbe far riflettere tutti noi. Credo anche che molte persone potrebbero citare episodi a parti invertite. Personalmente penso che nelle vicende individuali ciò che conta non sia la semplice appartenenza a un ceto sociale, il ricoprire un determinato ruolo o il credere in una specifica ideologia, ma sia lo spessore umano, l’etica individuale, il valore della persona. La storia che ci racconta è quella del venir meno a una parola data, dell’approfittarsi di una condizione tragica, dello strapotere del denaro su ogni altra considerazione umana. Nello stesso tempo è vero che in Italia la figura dell’imprenditore spesse volte viene accomunata a priori a quella del “prenditore”. Si tratta di un paradosso che io chiamo “il paradosso dell’imprenditore”, particolarmente evidente nel nostro Paese.

Siamo, infatti, la nazione con il maggior numero di imprese in percentuale sul numero di abitanti e con la presenza più diffusa di liberi professionisti. Non solo: siamo per molte ragioni storiche un popolo di individualisti con un basso senso civico della collettività e del bene comune. Eppure, contemporaneamente, abbiamo una legislazione del lavoro tra le più protettive, centrate sul contratto subordinato a tempo indeterminato, una macchina pubblica particolarmente estesa, inefficiente e burocratica, basata sull’inamovibilità del dipendente pubblico. Non solo: essere liberi professionisti, a torto o a ragione, nel sentire collettivo è sinonimo di evasione fiscale e di elusione delle regole. Siamo il Paese con il maggior numero di imprenditori e con il minor senso di valorizzazione dell’imprenditorialità. Io credo sia assolutamente necessario rivalutare il ruolo dell’imprenditore.

Consiglio in tal senso il bel libro di Roberto Battaglia, Startupper in azienda. Liberare il potenziale imprenditoriale nascosto nelle organizzazioni, edito da Egea. Se le persone sono, e saranno sempre, decisive per costruire la competitività delle imprese, diventa fondamentale chiederci che tipo di persone serviranno alle aziende da qui in avanti. C’è un fenomeno da tenere d’occhio ormai largamente confermato dagli studi sull’argomento: le generazioni più giovani (ma non solo) sono sempre più attratte dalle imprese che creano un impatto positivo nel mondo che le circonda e sono sempre meno soddisfatte da prospettive professionali lineari, rivendicando non solo il diritto al lavoro, ma a un lavoro non noioso. Le persone di valore vogliono lavorare per realtà che sanno rinnovarsi, nei principi, negli stili, ma soprattutto nei processi e negli spazi di autonomia che mettono a disposizione. Per attrarre, formare, motivare questi talenti occorre allora ripensare i processi di innovazione, facendo leva sullo spirito di iniziativa e sulla capacità degli individui di lasciare un segno nell’ambiente dove lavorano. In altre parole, farli somigliare più a imprenditori che a “impiegati”.

La tesi di questo libro è che si può diventare imprenditori all’interno di un’organizzazione senza doversi mettere in proprio. Gli intrapreneurs – ossia le persone che portano un’anima da startup nel corpo di un’impresa consolidata e si comportano di conseguenza – hanno una grande responsabilità: saper incanalare la propria energia e la propria ambizione per rafforzare l’azienda. I diversi modelli di intrapreneurship hanno infatti lo scopo di accelerare la crescita dei risultati aziendali accelerando la crescita delle persone. Per raggiungere questo obiettivo, due sono gli ingredienti essenziali: da un lato, aziende disponibili a creare e mettere a disposizione spazi di espressione non momentanei e persone pronte a occuparli con coraggio e impegno; dall’altro, poche ma chiare regole per gestire tali spazi e una cassetta degli attrezzi per trasformare problemi e sfide in soluzioni concrete. Agli HR business partner il compito di definire con la linea e con la Direzione aziendale le regole e gli spazi di autonomia per favorire l’imprenditorialità all’interno delle imprese e garantire dei comportamenti coerenti perché le persone siano motivate ed incentivate a prendere le iniziative, assumersene la responsabilità ed agire di conseguenza. Nel concreto, una sfida tutt’altro che facile, ma alla portata di una generazione di hr che sta dimostrando il suo valore anche in un periodo così difficile come quello che stiamo attraversando.

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