COMPETENZE E INTERNAZIONALIZZAZIONE

 da HARVARD BUSINESS REVIEW

Negli anni della crisi, l’economia italiana ha sofferto a causa del crollo della domanda interna, della caduta degli investimenti produttivi e del peggioramento della finanza pubblica. Le imprese italiane hanno in parte reagito rafforzando la loro presenza oltre confine. Oggi, di fronte ad un nuovo rischio recessione, questa strategia deve rafforzarsi. Un limite che riscontriamo, però, è lo storico nanismo delle imprese italiane. Se prendiamo infatti, in considerazione il fatturato complessivo dei primi dieci gruppi italiani, questi pesano per il 5% del Pil italiano, mentre i francesi per il 15% e i tedeschi per il 24%.

Dal 2012 ad oggi, il fatturato dei top 10 italiani cresce, ma limitandosi a un + 5,1% (+11,9% i tedeschi, + 6,6% i francesi, + 5,7% gli inglesi). Anche la classifica degli utili del 2017 ci vede in ultima posizione: i primi 41 gruppi italiani hanno cumulato utili per 4 miliardi, contro i 96 dei francesi, i 103 dei britannici e i 200 dei tedeschi.

Come evidenzia anche l’ultimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, si rafforza la presenza imprenditoriale italiana all’estero: oggi circa 22mila imprese estere sono controllate da società italiane e occupano 1,7 milioni di addetti (rispetto al 2007 + 400%).

Nel frattempo, si è ridotto il numero delle multinazionali estere presenti sul territorio nazionale (da 14.401 a 13.328 negli ultimi cinque anni) e i loro addetti (da 1,24 milioni a 1,19 milioni). Sono invece aumentate le multinazionali italiane all’estero (+8,9% dal 2007), il loro fatturato (+ 40%) e la forza lavoro impiegata (+23,4%). In crescita anche le imprese italiane che esportano; la grande maggioranza di queste, però, sono troppo piccole per sfruttare tutte le potenzialità dei mercati internazionali.

La grande maggioranza delle imprese italiane, tolti i grandi gruppi, esporta infatti per ricavi inferiori ai 75.000 euro, molte volte avendo un solo Paese di destinazione delle merci. Le grandi aziende, quelle che vendono all’estero per un valore superiore a 50 milioni di euro annui, pur essendo solamente lo 0,4% del totale (942 soggetti), rappresentano da sole quasi la metà dell’export italiano (circa 187 miliardi di euro).

Da questo scenario si capisce facilmente come le competenze per sviluppare i processi di internazionalizzazione siano concentrate solo nei grandi gruppi e che nel nostro Paese vi sia una cronica mancanza di competenze che possano sorreggere una veloce internazionalizzazione del nostro sistema produttivo.

Infatti:

  1. Nel nostro Paese, sia le persone in generale, sia la nostra classe dirigente, hanno una bassa esposizione internazionale: secondo un recente sondaggio condotto da ABA English il 40% degli italiani dichiara di aver perso nella vita almeno un’opportunità di lavoro a causa della scarsa conoscenza della lingua. Solo da poco i Progetti Erasmus hanno iniziato ad invertire questa tendenza.
  2. Le nostre PMI sono poco managerializzate: vi è quindi scarsa trasmissione di know – how dai grandi gruppi alle PMI.
  3. Nelle aziende si fa poca formazione. Secondo l’Istat oltre il 40% delle imprese non fa neanche un’ora di training procapite all’anno.
  4. Neppure nelle imprese ad alto tasso di internazionalizzazione, salvo rare eccezioni, per accedere all’alta direzione è tassativamente richiesta una significativa esperienza internazionale.
  5. Una recente ricerca Eca Italia e Università statale di Milano evidenzia come, nella maggioranza delle imprese, l’esperienza internazionale non è un must neanche per lo sviluppo dei talenti a più alto potenziale.

Per sopperire a questa carenza le imprese possono sfruttare i provvedimenti legislativi (il dl 78/2010 e il dl 147/2015) che prevedono sgravi contributivi e fiscali sia al rientro dei cervelli italiani emigrati all’estero, sia a tecnici, manager e ricercatori stranieri che vogliano trasferirsi nel nostro Paese. Queste facilitazioni però possono non essere sufficienti. Occorre che le imprese italiane comincino ad essere consapevoli che per andare all’estero non si può improvvisare. È tempo di munirsi delle competenze ad hoc e saper far crescere una classe dirigente adeguata alle nuove sfide globali che ci stanno venendo incontro.

 

 

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