HR: IMPARARE IL MESTIERE
È ormai consolidata la convinzione in ambito manageriale che non vi possa essere creazione di valore senza l’indispensabile contributo della risorsa umana. Eppure, in quest’ultimo decennio riguardo l’ambito HR abbiamo assistito, soprattutto in Italia, ad alcuni fenomeni non sempre coerenti tra loro:
– Il numero di addetti si è ampliato in modo assai significativo. Questo elemento è dato principalmente da tre fattori: la sempre crescente presenza territoriale delle società di somministrazione che ormai costituiscono il principale collettore tra domanda e offerta di lavoro, l’introduzione di Direzioni HR anche nelle organizzazioni del terzo settore e l’abbassarsi della soglia minima di addetti delle imprese che dispongono di un nucleo HR;
– Il mondo “risorse umane” è diventato quindi uno degli approdi privilegiati per moltissimi giovani, provenienti soprattutto da lauree cosiddette “deboli”;
– In questi anni si sono moltiplicati i master privati e i percorsi universitari dedicati a questo ambito di attività. La qualità di questi talvolta è ottima, il più delle volte molto lacunosa.
– Assistiamo al perdurare di un soffitto di cristallo per i senior Director HR: rari sono coloro che riescono a passare verso il business e/o ad assumere posizioni di CEO;
– La retribuzione media degli addetti ha subito un’evidente battuta d’arresto, sia nelle organizzazioni sia nella consulenza. Questa sempre meno costituisce, sul piano reddituale, una strada premiante per i colleghi a più elevato contenuto professionale;
– Globalmente il numero dei senior director è diminuito. Anche in posizioni critiche molte volte troviamo colleghi più junior di quelli che avremmo potuto trovare negli anni precedenti la crisi del 2008;
– I professionisti HR over 50 espulsi dalle imprese il più delle volte non si ricollocano ed ingrossano le fila della consulenza, per lo più in società molto piccole. La dimensione di questa attività consulenziale non consente il formarsi di un know-how distintivo e a poco a poco la professionalità di partenza del singolo professionista tende a sbiadire per mancanza di occasioni di aggiornamento e confronto;
– Tradizionalmente le multinazionali costituivano l’ambito privilegiato in cui crescevano le migliori risorse. Oggi non è più così. I meccanismi di accentramento dei processi ideativi e decisionali e la concomitante nascita degli shared services hanno determinato lo svuotamento professionale delle strutture locali. Molti colleghi HR locali sono chiamati a un compito di mera esecuzione passiva. Moltissimi Direttori HR di Country hanno un peso decisionale ridotto e non dispongono della responsabilità diretta degli addetti allocati nella subsidiary. Gli HR business partner organizzativamente a fianco della linea, mancando di potere decisionale, vedono il loro ruolo pericolosamente svuotarsi;
– Non a caso, tra gli addetti ai lavori, vi è la comune sensazione che tra le nuove leve il livello di preparazione professionale nel mondo HR si stia abbassando notevolmente. I giovani talvolta non ne hanno la consapevolezza, in altri casi non trovano ambiti formativi adeguati o le navi scuole che avevano trovato i loro predecessori.
– In contraddizione con quanto appena affermato vi è nondimeno da fare anche una differente considerazione: anche se non vi è un pensiero HR autoctono, nondimeno non vi è un significativo ritardo del management HR italiano rispetto quello internazionale. Lo dimostra il numero sempre più alto di responsabili italiani della funzione che sono protagonisti di carriere internazionali di successo.
La situazione si presenta quindi a macchia di leopardo. Accanto a situazioni professionali poco incoraggianti si possono rilevare anche esperienze e professionisti di grande rilievo. Il fattore umano costituisce comunque un assett imprescindibile per lo sviluppo economico. Questo, quindi, deve essere gestito con la massima professionalità possibile. Ne consegue che i momenti formativi del manager HR vanno ripensati, a partire dalla connessione tra università, business school e top player HR.
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