OLTRE IL PROFITTO: IL NUOVO PATTO TRA IMPRESA, SOCIETA’ E FUTURO

 da Direzione del personale - rivista AIDP

Interventi di Lara Ponti con Ferruccio De Bortoli e, a seguire, di Amelia Corti, Michele Alessi Anghini e Fabrizio Ruggiero, tutti coordinati da Paolo Iacci

Nel 2019, la Business Roundtable — l’associazione che riunisce i CEO delle 500 principali aziende statunitensi — ha diffuso una dichiarazione che ha segnato una cesura profonda nel modo di concepire il ruolo dell’impresa nella società. Per la prima volta, è stato affermato in modo esplicito che l’obiettivo dell’impresa non può più essere ridotto alla sola massimizzazione del valore per gli azionisti, ma deve includere il rispetto e la promozione degli interessi di tutti gli stakeholder: collaboratori, clienti, fornitori, comunità locali, società civile, ambiente. Oggi questo approccio sembra essere messo in discussione per un ritorno ad una visione più “affaristica” dell’organizzazione, dove la valorizzazione dell’interesse economico sembra prendere il sopravvento sul ruolo dell’impresa come soggetto di cittadinanza attiva. Eppure, quel documento resta una pietra miliare. Perché ha dato voce a un’esigenza profonda, avvertita sempre più anche in Europa: quella di riconoscere che l’impresa non è solo un luogo di produzione economica: è un attore sociale a pieno titolo, chiamato a costruire valore in senso lato. È da questo sfondo che nasce la conversazione intensa e per nulla scontata tra Lara Ponti, vicepresidente di Confindustria con delega alla sostenibilità, e Ferruccio De Bortoli, voce autorevole del giornalismo italiano. Due prospettive diverse, ma convergenti nel rifiuto di ogni nostalgia per un capitalismo muscolare e miope e nella consapevolezza che, oggi più che mai, i temi della sostenibilità, del capitale umano e dell’inclusione sociale non sono “accessori etici” o voci di bilancio da gestire, ma dimensioni strutturali della competitività e della legittimità stessa dell’impresa.

A partire da questa considerazione l’intervento di Lara Ponti ricorda, all’inizio del dibattito, come la sua esperienza prenda l’avvio da un ambito che, a prima vista, potrebbe sembrare distante dal mondo dell’impresa tradizionale: il terzo settore. Ma è proprio da lì che trae le sue fondamenta la visione manageriale che l’ha accompagnata, con coerenza e profondità, nel suo ingresso nell’azienda di famiglia. L’ingresso non avviene in un momento neutro. È il 2010, l’onda lunga della crisi finanziaria ha messo in discussione molte certezze del capitalismo neoliberista e il lavoro – spiega Ponti – sta perdendo centralità, qualità, stabilità. In quel contesto, la scelta di entrare in una realtà imprenditoriale dove il lavoro è ancora trattato come un valore da preservare, dove le persone sono considerate risorsa e fine, non solo mezzo, assume un significato profondo.

Il punto più interessante, forse, è proprio questo: Lara Ponti non rivendica la sostenibilità come un tratto morale o identitario, ma come una scelta strategica. Nella sua lettura, non basta “essere” virtuosi, bisogna decidere di esserlo. Perché solo quando la responsabilità sociale diventa parte del disegno aziendale, e non il riflesso della sensibilità di un singolo leader, può reggere al tempo, alle crisi, ai cambi generazionali. È un modo diverso di intendere la leadership: non carismatica, ma generativa. Non centrata sulla propria visione, ma sulla capacità di innestare quella visione nei processi organizzativi.

Le argomentazioni di De Bortoli partono da qui per ricordare come la qualità del capitale umano sia il vero differenziale competitivo del nostro sistema economico. Non è più un tema solo scolastico o formativo, ma sistemico. Manca manodopera qualificata e insieme perdiamo giovani. La visione è chiara: “non ci salveremo senza investimenti profondi su conoscenza, cultura e inclusione”. De Bortoli contesta l’idea che un giovane si assuma solo se costa poco. Serve una svolta culturale nel rapporto con le nuove generazioni. I giovani non cercano solo retribuzione, ma riconoscimento, dignità e senso. Senso che non va riscontrato solo nei confini della singola impresa, ma nel suo rapporto con la società e con l’ambiente. A questo proposito, nel successivo dibattito, il passaggio sulla crisi climatica e le regole europee ha offerto lo spunto per discutere il rapporto tra normative, innovazione e competitività. Ponti difende gli obiettivi del Green Deal ma critica l’“iperproduzione normativa” dell’UE. Le regole devono accompagnare l’innovazione, non anticiparla né ostacolarla.

Nell’ultima parte dell’intervista, Lara Ponti e Ferruccio De Bortoli toccano un tema tanto delicato quanto centrale per comprendere le trasformazioni in atto nel rapporto tra impresa e società: quello dell’inclusione. I nostri ospiti lo affermano con forza: l’impresa prospera solo in società aperte. Non è uno slogan, ma un’affermazione che parte da un’osservazione concreta della realtà. Dove prevalgono la chiusura, l’intolleranza, la restrizione dei diritti, non solo si impoverisce il tessuto sociale, ma si indebolisce anche la capacità delle imprese di innovare, attrarre talenti, adattarsi ai cambiamenti. Perché l’inclusione non è un optional etico: è una condizione strutturale dello sviluppo. Una società che marginalizza una parte della propria popolazione – che sia per ragioni di genere, origine, età o orientamento – è una società che si condanna da sola a non utilizzare pienamente le proprie risorse umane, a non ascoltare il dissenso, a non apprendere dall’eterogeneità. In altre parole: a non evolvere.

L’evidenza empirica mostra che i contesti organizzativi più inclusivi sono anche quelli più performanti sul medio e lungo termine. Ma qui Ponti va oltre l’argomentazione funzionalista. Il punto, per lei, è che l’ampliamento dei diritti e delle libertà delle persone non ha mai limitato la libertà di nessun altro. Al contrario, è la loro compressione che produce regressione, non solo sul piano valoriale, ma anche su quello economico. Quando si introducono norme che restringono la libertà di espressione, quando si alimenta il sospetto verso chi è diverso, quando si legittimano forme più o meno esplicite di discriminazione, il sistema nel suo complesso si chiude, si fa difensivo, si irrigidisce. La storia – recente e meno recente – dimostra che in questi contesti non si cresce, si combatte. E spesso si regredisce.

La consapevolezza del rischio non è confinata oltre oceano. E questo, per un imprenditore, non è un fatto neutro. Non si può rimanere spettatori. Perché ogni volta che si arretra sul piano dei diritti, a pagarne il prezzo sono anche le imprese. Non solo perché si restringe il bacino di talenti disponibili, ma perché si erode quel capitale relazionale e sociale senza il quale nessuna azienda può prosperare.

In questo senso, l’inclusione non è una voce da inserire nel bilancio di sostenibilità, né una casella da spuntare nei piani strategici. È un principio che riguarda la tenuta stessa del patto sociale su cui si fonda l’impresa. È il terreno su cui si misura la capacità di ogni organizzazione di abitare il proprio tempo, di comprenderne le tensioni, di costruire futuro. Non in astratto, ma nelle scelte quotidiane: nei criteri di assunzione, nei linguaggi usati, nei modelli di leadership, nella disponibilità ad ascoltare chi, fino a ieri, non aveva voce. In un’epoca in cui la chiusura viene presentata come sicurezza, e l’esclusione come efficienza, riaffermare il valore dell’inclusione è un atto profondamente politico. E, al tempo stesso, profondamente imprenditoriale.

La chiusura dell’intervista si gioca su una domanda che, a prima vista, potrebbe sembrare retorica, quasi una formalità per congedare gli ospiti con un auspicio: “Ci salveremo?”. Ma il modo in cui Ferruccio De Bortoli e Lara Ponti rispondono a questa domanda mostra che dietro quella formula si nasconde, in realtà, una questione di fondo. Una domanda che riguarda non solo il destino del Paese, ma anche il modo in cui interpretiamo il nostro tempo, il nostro ruolo nelle trasformazioni in corso, e soprattutto la nostra capacità – o volontà – di costruire un futuro condiviso.

De Bortoli, con il tono pacato e riflessivo che lo contraddistingue, ammette che oggi, se dovesse riscrivere il suo libro “Ci salveremo”, forse aggiungerebbe un punto di domanda al titolo. Non lo dice con disfattismo, ma con una consapevolezza matura: le certezze si sono fatte più fragili, le fratture sociali più evidenti, le promesse disattese più numerose. Eppure, nella sua risposta, affiora anche un elemento di fiducia. Non una fiducia cieca, ma una fiducia fondata sull’osservazione diretta del capitale sociale del nostro Paese: quel tessuto diffuso di relazioni umane, di volontariato, di micro-resistenze quotidiane al cinismo, alla rassegnazione, alla solitudine.

Lara Ponti, da parte sua, non nega le difficoltà, ma rilancia con una visione nitida e propositiva. Sì, ci salveremo – afferma – ma solo alla condizione di smettere di abbandonarsi alla nostalgia per battaglie ormai esauste, per ideologie consunte, per modelli produttivi e sociali che non reggono più l’urto della realtà. Il futuro non può essere affrontato con gli strumenti del passato, né con lo sguardo fisso allo specchietto retrovisore. Le imprese, come le istituzioni, devono abituarsi a navigare in un tempo nuovo, fatto di discontinuità, di ibridazioni, di pluralità. E per farlo devono riconoscere e valorizzare ciò che oggi più facilmente viene marginalizzato: l’energia dei giovani, la spinta dell’innovazione, la forza del cambiamento.

Ci sono momenti in cui il confronto tra esperienze diverse non produce solo un utile scambio di opinioni, ma diventa un dispositivo rivelatore: una lente attraverso cui leggere le trasformazioni profonde del lavoro, dell’impresa, della società. È ciò che è accaduto durante la tavola rotonda seguita al dialogo tra Lara Ponti e Ferruccio De Bortoli. Nella tavola rotonda abbiamo visto intervenire Amelia Corti, Managing Director di Sacbo, società di gestione dell’aeroporto di Bergamo, Fabrizio Ruggiero, AD di Edenred e Michele Alessi Anghini, Presidente della Fondazione Buon Lavoro.

Amelia Corti ha portato con sé il peso e la forza di una duplice appartenenza: quella a una storia di impresa radicata e insieme a una consapevolezza personale che si è affinata nel tempo, attraverso ruoli manageriali complessi e contesti spesso ostili alle prospettive di cambiamento. La sua voce è risuonata con particolare intensità quando ha parlato della necessità di ridare dignità all’ascolto come pratica organizzativa. Non solo come tecnica HR, ma come postura etica e strategica. In un’epoca in cui le imprese rischiano di smarrire il contatto con le persone, attratte dalla promessa dell’iper-efficienza e dalla fascinazione per l’algoritmo, Corti ha insistito sull’importanza del tempo relazionale, della cura nelle relazioni professionali, della capacità di costruire fiducia come prerequisito per ogni innovazione. Nei suoi due interventi, Amelia Corti ha mostrato una visione profonda e sistemica della gestione aeroportuale, evocando l’aerotropoli come metafora di un ecosistema interdipendente che può funzionare solo se in costante equilibrio tra sviluppo e impatto territoriale, e ha poi declinato questa stessa logica all’interno dell’organizzazione, raccontando come stia promuovendo una cultura aziendale capace di dare voce ai giovani e di far circolare l’energia attraverso strutture orizzontali e dinamiche, oltre i vincoli dell’organigramma tradizionale.

Fabrizio Ruggiero, dal canto suo, ha offerto una riflessione che intreccia in modo raffinato pragmatismo manageriale e visione culturale. La sua esperienza nel guidare trasformazioni aziendali complesse lo ha portato a una consapevolezza chiara: non esiste strategia che tenga se non si è disposti a mettersi in discussione. Ma, ha aggiunto, la vera leva del cambiamento non è il piano industriale, bensì la capacità di mobilitare senso. È qui che il suo discorso si è fatto sorprendentemente personale. Ha raccontato come, nei momenti più difficili, siano state le domande profonde – sul significato del proprio ruolo, sul perché fare impresa oggi – a guidare le scelte più coraggiose. Ruggiero ha parlato della vulnerabilità come risorsa manageriale, del coraggio di mostrare dubbi, del valore della trasparenza quando ci si assume la responsabilità di guidare un’organizzazione. Una leadership che non si fonda sull’infallibilità, ma sulla capacità di generare contesti in cui anche gli altri possano prendere parola, anche a rischio del dissenso. Fabrizio Ruggiero ha offerto una lettura lucida e originale della condizione giovanile, rifiutando le narrazioni semplicistiche sulla fragilità delle nuove generazioni e sottolineando invece la loro iper-esposizione, la consapevolezza amplificata e la ricerca di senso come elemento centrale del rapporto con il lavoro; nei suoi interventi ha richiamato le imprese alla responsabilità di rispondere a questa domanda di significato, non con slogan identitari come il “purpose”, ma con azioni concrete che diano valore, dignità e coerenza alle attività quotidiane, riconoscendo la necessità di costruire ambienti in cui anche le mansioni più operative abbiano un perché visibile e condiviso.Inizio modulo

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Michele Alessi Anghini ha portato invece una voce che ha saputo coniugare la dimensione imprenditoriale con una profonda sensibilità per il tessuto sociale e culturale in cui l’impresa si inserisce. Il suo intervento è stato un invito – quasi una provocazione – a ripensare il concetto stesso di impresa, non più come enclave produttiva ma come organismo sociale. Per Alessi, ogni azienda è immersa in un territorio, in una rete di relazioni, in una storia collettiva. Dimenticarlo, ha detto con forza, è uno degli errori più gravi del nostro tempo. La sua esperienza concreta – fatta di scelte imprenditoriali che hanno messo al centro la coesione sociale, la sostenibilità reale e la partecipazione dei collaboratori – ha offerto una testimonianza esemplare di come si possa coniugare competitività e giustizia sociale senza sacrificare l’una all’altra. Ha parlato della responsabilità come sguardo lungo, come capacità di immaginare l’impatto delle scelte non solo sul bilancio dell’anno successivo, ma sulla vita delle comunità che ruotano attorno all’impresa. Nei suoi interventi, Michele Alessi Anghini ha portato l’esperienza di una lunga carriera imprenditoriale vissuta con la tensione costante tra il bene dell’impresa e quello della società, raccontando con onestà le sue difficoltà nel conciliare le due dimensioni fino alla scelta, dopo 44 anni in azienda, di fondare la “Fondazione Buon Lavoro”; attraverso il concetto di “buona impresa” ha proposto un modello in cui impresa e società non devono essere tenute in equilibrio come se fossero forze contrapposte, ma viste come alleate in una sinergia virtuosa, fondata su tre pilastri: soddisfare i bisogni dei clienti, creare opportunità di lavoro dignitose, e contribuire alla ricchezza collettiva.

Il dialogo tra tutte le voci di questi dibattiti, pur nelle loro differenze, ha disegnato un orizzonte condiviso: quello di una nuova cultura d’impresa, non fatta di proclami ma di azioni quotidiane, di scelte concrete, di coerenze piccole e grandi. Una cultura che non teme la complessità, ma la abita.

 

 

 

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