DIMISSIONI E PENTIMENTI

 da HARVARD BUSINESS REVIEW

Dopo il Covid avevamo iniziato a parlare di “grandi dimissioni”. Il fenomeno come si sta evolvendo nel nostro Paese? La sequenza delle dimissioni volontarie nel corso degli ultimi dieci anni è molto chiara.

2015: circa 1 milione di dimissioni volontarie

2019 (pre- covid): circa 1,6 milioni

2020 (primo anno di covid): 1,3 milioni

2021 (post-covid):  2 milioni

2022:  2,2 milioni

2023: poco meno di 2,1 milioni

2024: circa 2 milioni

Negli ultimi dieci anni il numero di dimissioni volontarie si è raddoppiato. Negli ultimi due anni sembra registrarsi una leggerissima contrazione, ma non tale da modificare la tendenza in atto. Nel corso degli anni ’80, un lavoratore nel corso della sua vita professionale cambiava azienda mediamente 1,5 volte, oggi almeno 6 o 7 volte. Secondo un recente sondaggio di Michael Page, addirittura il 71% dei dipendenti in Italia «ha pensato di lasciare il proprio nuovo impiego dopo un solo giorno di lavoro». Anche se poi questo non avviene, è evidente la fragilità delle relazioni lavorative che si stanno instaurando in questo periodo storico.  La tendenza alla mobilità è particolarmente significativa soprattutto nel corso dei primi anni della vita professionale. Anche per questo motivo alcune aziende hanno già deciso di non assumere più giovani alla loro prima esperienza lavorativa. Secondo un recente rapporto elaborato dalla piattaforma di consulenza educativa e professionale Intelligent, cresce l’esitazione tra le aziende nel voler assumere giovani senza alcuna esperienza pregressa. Il sondaggio, condotto su quasi 1.000 manager e recruiter americani, ha messo in luce come un datore di lavoro su sei sia riluttante ad assumere i giovani della Generazione Z, spesso etichettati come presuntuosi o fragili, troppo attenti a se stessi e poco attenti ad acquisire le necessarie competenze professionali. Nel corso del 2024, molte aziende hanno riscontrato comportamenti inadeguati da parte dei giovani assunti: ritardi nell’arrivo al lavoro, mancato rispetto dei codici di abbigliamento aziendali, difficoltà nell’utilizzare un linguaggio adeguato all’ambiente professionale, intemperanze verso le comuni regole aziendali. Questi comportamenti sono stati considerati segnali di un’insufficiente preparazione ad affrontare il mondo del lavoro, motivo per cui diverse aziende faticano a trattenere i giovani lavoratori della generazione Z. Non sorprende, dunque, che circa sei aziende su dieci del campione – sempre secondo il rapporto Intelligent – abbiano licenziato almeno un neolaureato nell’ultimo anno, citando come cause principali la mancanza di motivazione, la scarsa professionalità e le debolezze nelle capacità di comunicazione. I giovani sembrano avere ricambiato con ugual moneta lo scontento aziendale, incrementando in maniera più che proporzionale la tendenza alle dimissioni volontarie. Con il crescere di queste, stanno aumentando anche i pentimenti davanti a decisioni di cambiamento prese in modo forse troppo frettoloso. Secondo l’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, il 41% di chi ha cambiato azienda (non solo giovani) si è pentito della scelta, mentre tra chi ha lasciato il lavoro senza una nuova offerta, il pentimento arriva al 56%. Le cause principali sono la difficoltà a trovare una nuova occupazione e la rivalutazione del vecchio impiego. Il 68% dei dipendenti afferma di aver tentato di riavere il proprio posto di lavoro, ma solo il 27% dei datori di lavoro ha riassunto i dipendenti che se ne erano andati durante questo periodo. Tutto questo però finora non sta comportando alcun effetto sul numero delle dimissioni volontarie. Ci si dimette, ci si pente e ci si dimette nuovamente. Un mercato del lavoro in forte tensione, dove mancano professionalità a tutti i livelli e dove le imprese denunciano costanti difficoltà nel reperire il personale, favorisce il permanere di questi comportamenti sociali. Ai vertici delle imprese c’è chi spera che una contrazione dei livelli occupazionali possa modificare questi atteggiamenti, ma la maggioranza degli esperti sembra essere di parere opposto, sia per la quantità degli attuali “fallimenti all’assunzione” (secondo Unioncamere il 47,8% nel primo trimestre 2025) sia perché ormai la soglia delle frustrazioni professionali percepite come accettabili si è molto abbassata e nulla fa pensare a modifiche così profonde nel modo di percepire il lavoro, almeno nel breve periodo.

 

 

 

 

 

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