PRODUTTIVITA’ FERMA, OCCUPAZIONE AI MASSIMI. IL PARADOSSO ITALIANO

 da HR ONLINE

Nottinghamshire, inverno 1811: le botteghe dei tessitori vengono sistematicamente trovate all’alba con i telai per calze sfasciati. Sui rottami si rinvengono dei volantini firmati “Ned Ludd” —un personaggio probabilmente leggendario, usato come nome-bandiera — in cui si minacciano i padroni che tagliano i salari e introducono nuovi telai tecnologicamente più avanzati, manovrati da manodopera non qualificata. In realtà i luddisti non erano “contro la tecnologia” in astratto: chiedevano tariffe eque, qualità del prodotto e regole sull’uso delle nuove macchine. Quando le petizioni non bastarono, passarono al sabotaggio. Il Parlamento inglese rispose nel 1812 col Frame Breaking Act (rompere un telaio diventò reato capitale) e la repressione fu durissima: truppe, arresti, impiccagioni, deportazioni.

Due secoli dopo, in Italia nessuno prende a martellate i macchinari: semplicemente, creiamo le condizioni per cui conviene non comprarli. Abbiamo riempito le officine di braccia volenterose, lasciando in vetrina i telai nuovi. Questo funziona benissimo per consegnare l’ordine urgente; molto meno per far crescere la produttività.

Questo è il senso che si ricava dalla lettura del primo Rapporto annuale sulla produttività del Comitato Nazionale Produttività del CNEL, che individua una debolezza strutturale ormai persistente.

L’Italia vive un doppio registro: occupazione record oltre i 24 milioni di addetti e disoccupazione ai minimi da anni, ma produttività bloccata sui livelli del 2019. Dal 1995 al 2024 la produttività italiana è aumentata in media dello 0,2% l’anno, contro l’1,2% dell’Unione europea, l’1% della Germania e lo 0,8% della Francia. Nel biennio post-pandemico 2022-2024 il dato è addirittura peggiorato di –2,5%, perché le ore lavorate sono cresciute più del valore aggiunto. In molti settori l’inflazione ha reso più conveniente assumere che investire in tecnologia e innovazione. Dal 2000 al 2024 la produttività in Italia è rimasta praticamente piatta: l’aumento complessivo è dell’ordine di ~+2% in 25 anni, segnalando un problema strutturale di lungo periodo. Nello stesso periodo la produttività in Unione Europea è cresciuta mediamente del 18,7%.  In pratica, l’Italia, a parità di ora lavorata, ha perso terreno (16%) nei confronti delle aziende degli altri Paesi europei.

Molte imprese – soprattutto nei settori labour-intensive – hanno fatto crescere le ore lavorate più del valore aggiunto. La dinamica salariale è rimasta contenuta e il contemporaneo aumento dei prezzi ha reso relativamente più conveniente assumere che investire, nel breve periodo. Anche la grande frammentazione del sistema produttivo italiano (il 94,7% delle imprese ha meno di 10 addetti) ha frenato la produttività aggregata e ha limitato la capacità di investire in innovazione, capitale umano e internazionalizzazione.

Al contrario, dove si è investito in export, digitalizzazione e innovazione si sono osservati, da un lato, premi di produttività più significativi (≈+15–30% con adozioni digitali; +20% per imprese innovative), ma, dall’altro, incrementi quantitativi di personale sicuramente meno importanti.

In sintesi, secondo il Cnel, l’Italia non manca di lavoro: manca di produttività. Senza un salto di scala su dimensione d’impresa, export, digitale e innovazione, la crescita resterà fragile, i salari compressi e il paradosso occupazione-senza-valore si trascinerà oltre l’attuale ciclo economico.

Se vogliamo smettere di “aggiungere braccia” e iniziare a “comprare telai” — e soprattutto a farli rendere — serve un patto operativo tra Direzione, Operations e HR. Il punto di partenza è la misurazione: pochi KPI leggibili dal reparto al CdA, come valore aggiunto per ora, lead time, fatturato per FTE, ecc. Su questi indicatori va costruito un cruscotto per team e una cadenza di review mensile, perché senza numeri condivisi il cambiamento resta uno slogan.

Poi occorre ridisegnare il lavoro, non solo i ruoli. Mappare i flussi di valore e ripensare compiti e sequenze: ciò che è a basso valore aggiunto andrebbe tendenzialmente eliminato o automatizzato. Le competenze diventano il vero asset produttivo. Serve una tassonomia delle skill ancorata ai processi chiave e un piano di up- e reskilling. La leva delle performance va riallineata. Gli indicatori devono legarsi ai driver operativi e l’intero ciclo di gestione delle performance dovrebbe passare da un consuntivo annuale a conversazioni trimestrali di feedback e riconoscimento. Anche la politica retributiva può favorire la produttività. Gli incentivi dovrebbero pagare il risultato, non la presenza: meccanismi di gainsharing a livello di team e premi di risultato collegati a pochi KPI chiari, con soglie e tetti, possono favorire comportamenti virtuosi. Il reclutamento e la mobilità interna vanno ripensati in chiave di valore.

Per sostenere tutto questo serve una regia del cambiamento. Le aziende per essere più produttive e performanti devono muoversi in modo coeso in tutte le loro parti, con competenze sempre più aggiornate e con meccanismi di cambiamenti veloci, ma anche condivisi da tutti. È un lavoro lungo ed estremamente complesso dove la funzione HR deve svolgere un ruolo chiave.

Ai tempi di Ned Ludd i telai facevano paura. Oggi il rischio è l’opposto: non usarli abbastanza bene. La via maestra per la produttività non è scegliere tra persone o macchine, ma disegnare organizzazioni in cui le persone sappiano moltiplicare il valore delle macchine. È qui che l’HR può fare la differenza, trasformando una serie di iniziative sparse in un progetto coerente per lo sviluppo della competitività.

 

 

 

 

 

 

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