SALARI BASSI E PRODUTTIVITA FERMA

 da HR ONLINE

​Un vecchio imprenditore brianzolo, noto per la sua franchezza ruvida, amava ripetere: “Quand gh’è minga i danée, la gente la laüra pü fòrt. Per disperazion.” (“Quando non ci sono soldi, la gente lavora più forte. Per disperazione.”).

Era convinto che tenere gli stipendi bassi fosse la vera leva della produttività. Lo raccontava ridendo, ma poi chiudeva l’anno in perdita e dava la colpa ai collaboratori. Un esempio perfetto di come, in Italia, si confonda spesso il costo del lavoro con il valore del lavoro.

Nel nostro Paese i salari reali sono fermi da anni e, negli ultimi tempi, hanno subito una vera e propria erosione. Non si tratta solo di percezioni: l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, pubblicato a marzo 2025, mostra dati impietosi. Dal 2008 ad oggi, i salari reali in Italia sono diminuiti dell’8,7%, la performance peggiore tra tutti i Paesi del G20. Mentre in Germania e Francia i salari, nello stesso periodo, sono cresciuti rispettivamente del 14,5% e del 5,4%, in Italia la dinamica è stata inversa.

Questo declino non può essere attribuito unicamente alla recente ondata inflattiva, che ha colpito tutta l’area OCSE. In Italia, il problema è strutturale e ha a che fare con un sistema produttivo che non riesce a generare valore in modo efficiente. La produttività del lavoro cresce poco, in alcuni settori addirittura si contrae. Le imprese, strette tra la concorrenza globale e i vincoli interni, hanno cercato competitività soprattutto comprimendo il costo del lavoro, piuttosto che investendo in innovazione, organizzazione o capitale umano.

La spirale è ben nota: bassa produttività comporta scarsa capacità di distribuzione e, quindi, salari bassi; ma salari bassi a loro volta disincentivano la formazione, la motivazione e la permanenza in azienda delle risorse migliori, impoverendo ulteriormente la base produttiva. In questa trappola, il Paese rischia di restare imprigionato a lungo.

I dati del rapporto OIL lo confermano: nel solo biennio 2022–2023 i salari reali italiani si sono ridotti complessivamente di oltre il 6%, con un parziale recupero nel 2024 (+2,3%). Tale recupero non è stato però sufficiente a colmare le perdite precedenti. È un fenomeno che ha colpito soprattutto i lavoratori a reddito medio-basso, i più esposti alla crescita del costo della vita e i meno protetti da meccanismi di indicizzazione o premi variabili.

Il problema, tuttavia, non è solo economico. È organizzativo e culturale. L’Italia continua ad avere un tessuto imprenditoriale fortemente frammentato, con un numero elevatissimo di microimprese, spesso a conduzione familiare, poco inclini a investire in tecnologie abilitanti o in pratiche di gestione avanzata delle persone. Il lavoro viene gestito più come un costo da contenere che come un driver di valore da sviluppare. Non sorprende, in questo scenario, che molti giovani qualificati cerchino opportunità all’estero e che le aziende italiane facciano fatica ad attrarre e trattenere talenti.

Ma non tutto è immobile. Esistono imprese che stanno rompendo questo schema: aziende che legano i salari alla produttività effettiva, che introducono modelli di organizzazione partecipativa, che premiano l’innovazione diffusa, che investono in formazione continua e che trattano la retribuzione come parte di un patto serio tra azienda e lavoratori. Dove questo accade, i risultati si vedono: il numero di dimissioni diminuisce, la produttività cresce e anche la marginalità migliora.

Il punto non è se il lavoro “costa troppo”. Il punto è se lo stiamo facendo valere abbastanza. In un mercato che cambia, dove l’intelligenza artificiale, le competenze digitali e l’adattabilità sono le nuove chiavi della competitività, un lavoro sottopagato è spesso anche un lavoro sottoutilizzato. E quindi un’occasione sprecata per tutti: per le persone, per le imprese e per il Paese.

 

 

 

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