FAKE NEWS

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Washington D.C., domenica 4 dicembre, h 15.00: Edgar Welch, 28 anni, entra nella pizzeria Comet Ping Pong imbracciando un fucile. Dopo il suo ingresso, Welch minaccia un dipendente della pizzeria, che riesce a scappare e a chiamare la polizia. Welch spara ma non colpisce nessuno. Quando la polizia è intervenuta, ha isolato la strada davanti al locale e ha arrestato Welch, che non ha opposto resistenza. L’uomo arrestato spiega alla polizia di essere andato al ristorante per «investigare da solo» sul Pizzagate, la teoria secondo cui il ristorante sarebbe stata la base di una rete di pedofili del Partito Democratico che si muoverebbe usando il fantasioso nome in codice “pizza”.
Tutto è cominciato con una pretestuosa interpretazione di un messaggio totalmente innocuo trovato nelle email trafugate a John Podesta, capo del comitato elettorale di Clinton, e pubblicate da WikiLeaks. Da allora la pizzeria è al centro di un’assurda teoria del complotto inventata sui social network, secondo cui il ristorante sarebbe la base di una rete di pedofili del Partito Democratico. Con la diffusione della bufala, circolata anche su Facebook e su Twitter, la pizzeria ha avuto molti problemi: le sue pagine online sono state oggetto di decine di recensioni negative, e il proprietario James Alefantis e gli altri dipendenti hanno ricevuto continue minacce su internet.
La notizia forse non è freschissima ma necessita di qualche momento di riflessione ulteriore. Il problema delle fake news (false notizie) non è nuovo, ma dopo la campagna elettorale americana ha assunto i contorni di un’emergenza che è lo specchio di una crisi più vasta di credibilità degli organi di informazione tradizionale e dello stesso processo di formazione della pubblica opinione.
Ormai chi la spara più grossa fa notizia e questa si propaga in modo virale, senza alcuna verifica. Il dato di realtà viene meno a favore di quello dell’appartenenza e dell’identità. La visceralità delle convinzioni diffuse tramite i social network sono difficilissime da combattere.
Dopo l’arresto di Welch, l’odio contro la pizzeria Ping Pong non si è placato, anzi: ora la nuova teoria è che l’uomo sia in realtà un attore ingaggiato per deviare l’attenzione dalla rete di pedofili. E da bufala nasce bufala, senza requie.
Anche per questo Facebook e Google che detengono ormai il primato della distribuzione di notizie, si sentono ormai investiti di una grande responsabilità, e per la prima volta sembrano ammetterla e voler metter mano al problema. Subito dopo il voto americano Mark Zuckerberg dichiarò che il 99% delle notizie su Facebook è vera e che quindi il problema delle bufale con cui Trump ha vinto le elezioni non lo coinvolge. Ora a poco a poco il social più diffuso del pianeta sta invece pensando a un sistema di segnalazione delle notizie false. Non è ancora chiaro in cosa consisterà, ma dovrebbe basarsi sui “voti” degli utenti su una scala da 1 a 5: davvero troppo poco, ammesso e non concesso che venga poi effettivamente messo in onda.
Occorre che vi sia una presa di coscienza collettiva che venga dal basso: mai credere in modo acritico a quello che dice internet. Qui chi le spara più grosse sembra aver ragione, ma poi saremo solo noi a rimetterci! La disintermediazione delle notizie ha una serie di elementi positivi: è nato ad esempio il giornalismo “diffuso”, quello per cui teoricamente ogni cittadino può diventare cronista e mettere in onda le verità anche più nascoste. Ha però anche enormi effetti negativi. Ogni persona, non in buona fede può gettare discredito sapendo che anche se verrà smentito, comunque almeno in parte avrà ottenuto di arrecare danno, talvolta anche in modo irreparabile. Ricordiamoci le adolescenti suicide per il bullismo o il discredito sui social.
Il problema, evidentemente, è prima di tutto politico, ma ha una sua rilevanza anche sul versante economico e della conduzione delle imprese. Sempre più il valore del brand passa attraverso l’opinione che si forma la rete. La disintermediazione tra produttore e consumatore di notizie rende difficilissimo il controllo sulla veridicità delle opinioni che navigano. Se siete padroni di una pizzeria vi potreste trovare imputati di traffico pedopornografico da un istante all’altro. L’opinione del primo che passa per la strada se ripetuta all’infinito o se ha una moltitudine di followers può decretare il successo o il fallimento di un’impresa. Occorre agire a diversi livelli. Chi gestisce dei siti che diffondono notizie dovrebbe essere sottoposto a qualche tipo di controllo e penalizzazione nel caso di diffusione di notizie false e tendenziose. Così come lo è il direttore di un giornale, così lo dovrebbe essere anche chi svolge lo stesso ruolo senza accollarsi alcuna responsabilità per l’attività che svolge.
Anche le imprese dovrebbero nel contempo attrezzarsi, con una serie di azioni preventive, prima tra tutte un deciso focus sulla presenza in rete. Qui il ruolo dei dipendenti può diventare cruciale: la convinta testimonianza da parte di chi in quella data impresa davvero ci lavora può essere fondamentale agli occhi di chi ci guarda. Ovviamente, però, questo presuppone un buon clima interno e un livello di engagement costantemente molto buono, cosa non sempre di facile attuazione. E comunque, nel tempo una leva costosa. Sull’employer branding siamo appena all’inizio, sulla gestione dell’immagine in rete c’è ancora troppa poca attenzione. E quando ci sarà, forse, non sarà ancora abbastanza.

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