CHI TROPPO OFFRE, POCO VENDE. ANCHE NELLA SELEZIONE

 da HARVARD BUSINESS REVIEW

Ingresso di un supermercato. Da un lato, un tavolo con 24 barattoli di marmellate diverse. Sul lato opposto, esattamente di fronte, un altro tavolo, con sole sei confezioni delle stessa marca di marmellate. Più del 60% dei clienti si ferma davanti al banchetto con i 24 barattoli, mentre meno del 40% è attratto da quello con 6 barattoli. Grazie alla capacità dei commessi, in entrambi i casi i clienti assaggiano mediamente due gusti. Prima annotazione: il numero di assaggi non è proporzionale all’iniziale interesse suscitato. Non solo: tra coloro che avevano mostrato interesse alla marmellata, nel caso dei 24 barattoli di marmellate differenti solo il 3% effettivamente acquista almeno un prodotto, mentre nel caso dei 6 barattoli acquista la marmellata ben il 30%! Ipotizziamo, cioè, di avere cento persone potenzialmente interessate alle marmellate:

  • al tavolo con 24 diversi gusti si fermano 60 persone. Solo 2, però, comprano;
  • al tavolo che offre solo 6 gusti si fermano 40 persone, ma ad acquistare sono circa 12 persone.

Sembra incredibile, ma il banchetto con meno scelta ha un potere di conversione alla vendita sei volte superiore a quello con più scelta! L’esperimento è notissimo. Gli autori, Sheena Iyengar (Columbia University) e Mark Lepper (Stanford University), nel 2000, arrivarono a formulare uno dei principali meccanismi di psicologia dei consumi: una proposta costituita da molte scelte ci attira, ma oltre un certo limite finisce per disorientarci, rendendo difficile il processo decisionale d’acquisto.  Il processo d’acquisto viene percepito, inconsapevolmente, dal potenziale acquirente come un’esperienza troppo lunga e faticosa. Aumenta la possibilità d’incertezza e il successivo rammarico per aver fatto una scelta invece di un’altra. Troppe le variabili da considerare, eccessivamente lungo il processo di scelta. Appare più fruttuoso proporre un minor numero di prodotti, più segmentati. Si attireranno meno clienti, ma le vendite saranno maggiori.

Questo meccanismo si evidenzia anche durante il processo di selezione. Quando un decisore aziendale si rivolge al mercato esterno per acquisire una competenza che non ha all’interno, ma non ha le idee abbastanza chiare oppure ha molta paura di sbagliare, chiede di vedere un numero sempre maggiore di candidati. E più ne vede, meno è in grado di decidere. Non solo. Negli ultimi anni, a fronte di una sempre maggiore variabilità dei mercati, tutti i decisori cercano comprensibilmente di minimizzare il rischio implicito in ogni scelta. Avviene così che le selezioni diventano in molto casi processi lunghissimi, perché non bastano due o tre colloqui: questi tendono a moltiplicarsi. Sembrano non bastare mai. Il decisore vuole avere il conforto dei suoi più diretti collaboratori e fa quindi vedere loro i vari candidati in short list. Ai colloqui molte volte si aggiungono test e colloqui di assessment, diluendo ancor di più i tempi.  Teoricamente tutto giusto, ma il risultato alla fine è sbagliato. Per un verso, i colloqui a più persone dell’azienda consentono al candidato di capire meglio l’azienda e la posizione e, allo stesso tempo, permettono che la scelta finale sia maggiormente condivisa. D’altro lato, molti ottimi candidati abbandonano per sfinimento, l’impresa appare troppo indecisa, si moltiplicano le possibilità di incomprensioni.

Assecondare il decisore in queste richieste non lo aiuta. Al contrario, in molti casi, contribuisce al suo impasse decisionale. Poter disporre di un vasto numero di candidati, tutti adeguati, tra cui scegliere dovrebbe essere positivo. In realtà, se le informazioni da processare per la scelta sono troppe, il processo decisionale risulta più difficile. Avere a disposizione una gamma d’offerta eccessivamente vasta non aiuta il processo di scelta, ma al contrario può determinare confusione e inibizione: vale nella grande maggioranza dei comportamenti d’acquisto, indipendentemente dal tipo di prodotto offerto (candidati compresi).

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