ATTACCO AI CAPI

 da tratto dal volume "I capi sono soli"

Tutti i sondaggi, in modo unanime, ci evidenziano come la classe dirigente abbia perso, agli occhi della gente, la sua credibilità. Non solo la dirigenza politica e istituzionale, ma anche quella che ha il compito di gestire le nostre imprese. Al loro interno si respira un clima di tensione e i capi, con giusta ragione, temono per il proprio posto di lavoro. Stiamo quindi affrontando la crisi di questi anni con una classe dirigente aziendale delegittimata e impaurita, che sta generando una minore qualità del proprio lavoro: di questo scadimento sta soffrendo tutto il nostro sistema produttivo, che non regge il passo con i concorrenti.

Nello stesso tempo, le imprese vivono situazioni costitutivamente paradossali: per stare sul mercato devono investire di più, potendo però contare su minori incassi, devono personalizzare la produzione, incrementare la qualità, ma devono anche massimizzare l’utilizzo degli impianti, quasi senza poter fare investimenti. E ancora, devono motivare le persone senza avere i mezzi per premiarle, devono pensare alla reddittività a breve non potendo contare sulla necessaria liquidità e quindi lavorando sempre a debito; in una parola, devono “fare di più con meno”.

Ma proprio nel momento più difficile, quando le aziende avrebbero maggior bisogno di un quid aggiuntivo di managerialità, assistiamo a un attacco frontale a chi dovrebbe compiere questo piccolo miracolo: il capo. Mai come in questo momento, come dicevamo, la continuità del suo lavoro è quotidianamente attaccata, la sua attendibilità minata, le attese enormi e tra loro contraddittorie. Quando si parla dell’andamento delle singole aziende, gli occhi sono però puntati solo sui numeri uno i grandi condottieri, quelli che con un coup de theatre sarebbero in grado di stravolgere le sorti di un’impresa. Dimenticandosi che questa magari prospera da decenni, grazie al semplice quotidiano lavoro dei capi e dei loro collaboratori che, insieme, costituiscono il vero motore delle imprese.

Su questi si è scaricato il peso della crisi, l’erosione del potere d’acquisto dei salari, il diffuso clima d’incertezza, la perdita dei posti di lavoro, la difficoltà nel ricollocarsi. Fedeli, costituiscono lo zoccolo duro delle imprese. Grazie a loro gli impianti non si sono fermati, i clienti sono stati serviti con attenzione, le competenze distintive dell’organizzazione non si sono perse nel vento della crisi. Grazie a loro siamo pronti a ripartire. In qualche caso sono appena stati nominati, hanno ottime competenze tecniche ma non hanno esperienza gestionale. Altri, invece, sono persone non più di primo pelo: i capelli si sono imbiancati e rischiano così di essere ritenuti ormai troppo anziani per creare valore aggiunto.

In ogni caso, però, sono loro, i capi, i veri depositari del know-how aziendale. Ma verso di loro vi sono aspettative troppo grandi.  Come dice il titolo di questo libro, “I capi sono soli”. Non sempre sono stati formati adeguatamente e non sempre sono assistiti come meriterebbero. Inoltre, l’attenuazione del peso della linea gerarchica che si è gradualmente verificato nelle organizzazioni, ha determinato uno stimolo a una più decisa integrazione orizzontale tra le funzioni. L’effetto di questi mutamenti sul segmento dei capi e dei responsabili funzionali è stato duplice: da un lato questi hanno perso prestigio e potere gerarchico, d’altro lato vi è stato, in genere, un allargamento orizzontale delle loro aree di responsabilità.

Tradizionalmente il modello fordista aveva abituato le organizzazioni a considerare la competenza come una risorsa scarsa e costosa che, come tale, era consigliabile si concentrasse solo nei livelli più alti della struttura o in particolari settori specializzati. La necessità di maggiore integrazione organizzativa richiede ora, all’opposto, un’eccedenza conoscitiva che per il modello fordista era un inutile impiego di risorse e che invece, adesso, sempre più costituisce la condizione indispensabile di rapida aderenza alle necessità del mercato.

Possiamo quindi affermare che siamo passati da una società caratterizzata dalla mancanza – di risorse, di denaro, d’idee, di professionalità – a una società caratterizzata dall’abbondanza – di mezzi, informazioni, possibilità, occasioni di crescita. Tutto ciò malgrado il perdurare della crisi. Questo naturalmente ha però anche delle implicazioni negative, come la maggiore difficoltà a comprendere la situazione in cui si è inseriti, o le ansie derivanti da una minore stabilità.

Da un lato vi è quindi una necessità urgente di ritorno alla formazione, leva troppo dimenticata negli ultimi anni. Una formazione personalizzata, costruita ad hoc sulle necessità del singolo. Una formazione che riguardi non solo l’aggiornamento di carattere tecnico, ma anche lo sviluppo delle competenze manageriali. Qui s’inserisce, con la sua grande forza metodologica, il coaching come strumento per massimizzare il proprio potenziale personale e professionale.

D’altro lato occorre rispondere a una sorta di urgenza esistenziale del capo. Questi si sente da un lato abbandonato al suo destino e d’altro lato, contemporaneamente, caricato delle responsabilità del risanamento di ogni singola azienda. Vi è un’urgenza di benessere che le imprese tendono a sottovalutare ma che colpisce in modo particolare i responsabili, perché questi hanno già raggiunto un discreto livello economico, ma spesse volte non vivono una qualità di vita professionale in linea con le loro attese.

Sul piano motivazionale, non a caso, proprio i dirigenti e i capi intermedi stanno esprimendo, più di altri, una forte richiesta di significatività del lavoro. Sempre più spesso nelle organizzazioni si vive una sensazione d’impersonalità, sostituibilità, isolamento e omologazione che tende a schiacciare.  Sotto questo peso, agire solo sul versante economico ha un effetto motivazionale passeggero se non marginale.

Ridare senso e valore a ciò che viene fatto, ricompattare le persone sui valori e le prospettive strategiche dell’impresa, è un terreno ancora in larga misura inesplorato. Le imprese, invece, in molti casi chiedono principalmente di ubbidire agli ordini, e quindi un atteggiamento passivo e condiscendente, ma allo stesso tempo sollecitano proattività e adesione al futuro dell’impresa. Le aziende chiedono impegno e presenza di sé nel ruolo, cercano capi orientati all’investimento personale, ma nello stesso tempo non assumono stili di leadership inclusivi. La situazione è di difficile gestione. Perché ciò avvenga, il soggetto deve non solo considerare il proprio lavoro “pieno di senso”, ma deve anche essere tranquillo sul fatto che potrà esprimersi senza per questo subire censure aprioristiche poco produttive.

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