IL LAVORO AL CENTRO DELLA VITA SOCIALE E CIVILE DEL PAESE

 da HR ONLINE

 Correva l’anno 1952, quando Giuseppe Di Vittorio, primo segretario nazionale CGIL del dopoguerra, al congresso di Napoli, propose uno Statuto dei diritti dei lavoratori, riassunto nello slogan «la Costituzione nelle fabbriche». In quell’occasione ebbe a dire: «Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi diritti siano rispettati da tutti». Anni più tardi il Ministro del lavoro socialista Giacomo Brodolini volle applicare quell’idea di fissare in una Carta i diritti inalienabili dei lavoratori cercando di declinare lo spirito della Costituzione Italiana all’interno dei luoghi di lavoro. Per farlo chiamò un gruppo di studiosi, coordinato da Gino Giugni, giurista e uomo politico di grande levatura, a quel tempo Professore di diritto del lavoro all’Università di Bari e oggi giustamente ricordato come il padre spirituale dello Statuto.L’iter parlamentare della Carta durò quasi un anno e, con il contributo di molti illustri studiosi, vide la luce il 20 Maggio 1970. Lo “Statuto dei diritti dei lavoratori”, la famosa legge 300, compie quindi cinquant’anni. Con lo Statuto, i diritti del lavoro, solennemente sanciti nella Carta costituzionale del 1948, «varcano i cancelli delle fabbriche». Questo unanime consenso per i contenuti della legge è però distante dalle travagliate discussioni che accompagnarono le fasi di approvazione del testo voluto dal Ministro del lavoro Giacomo Brodolini, elaborato da Gino Giugni e portato a termine dal democristiano Donat Cattin. Il disegno di legge fu oggetto di forti critiche non solo, come comprensibile, da parte delle imprese, ma anche da ambienti vicini al sindacato. Angelo Costa, Presidente di Confindustria, comunicò al Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, la viva preoccupazione per l’iter di approvazione di una legge che avrebbe potuto determinare «effetti esiziali per il progresso economico del Paese». Ugo Natoli, giurista vicino alla Cgil, scrisse sulla Rivista Giuridica del Lavoro che il provvedimento era «totalmente inadeguato al fine di una effettiva tutela delle libertà nelle fabbriche, ponendosi, piuttosto, in funzione sostanzialmente limitativa di esse». Il Pci, per bocca del deputato Giuseppe Sacchi, fu ancora più deciso nell’esprimere il suo dissenso durante il dibattito parlamentare: «se la maggioranza di questo Parlamento vorrà assumersi la responsabilità di approvare una legge che autorizza i padroni a continuare a calpestare la Costituzione nei luoghi di lavoro, ebbene, di questo atto giudicheranno i lavoratori». Personalmente tendo a dare valore all’interpretazione che ne diede nel 2006 Bruno Trentin, elemento di spicco della CGIL e della sinistra comunista: «(…) lo Statuto dei diritti del lavoro (…) nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di vent’anni prima. Purtroppo, una parte della sinistra, i parlamentari del PCI, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché» in quel momento [la sinistra era, n.d.r.] «esclusa dalla partecipazione al Governo». Lo statuto divenne infatti legge con la sola astensione di PCI, Psiup e MSI. Ricostruisco questi episodi solo per ricordare come nello Statuto dei lavoratori, al di là della polemica politica contingente, vi fu una larghissima convergenza di tutto il mondo del lavoro e come abbia rappresentato  un momento cruciale nella storia del nostro Paese per il suo portato di civiltà e di dignità del mondo del lavoro.

È altresì necessario distinguere il significato e i principi dello Statuto dalle singole norme che lo compongono. Molte di queste sono invecchiate, altre sono state cambiate: quindi, lo Statuto non è più quello di un tempo, ma in realtà i princìpi che lo sostanziano sono di rango costituzionale e, giustamente, poi sono stati riprodotti e estesi a livello internazionale e largamente poi ripresi anche nella Costituzione dell’Unione Europea. Questi principi sono ancora la piattaforma dei diritti fondamentali civili e sociali della persona che, allora, lo Statuto fece entrare nei cancelli della fabbrica. A cinquant’anni non possiamo non evidenziare come questa normativa sia ancora oggi un punto avanzato del nostro ordinamento giuridico. Normativa capace di attribuire ai lavoratori una dote di diritti di carattere universale tesi a declinare i valori della Carta costituzionale in diritti effettivi. Un complesso di garanzie che aveva ed ha l’ambizione di non incidere solamente nelle relazioni industriali, ma anche di attribuire al lavoratore una dose importante di diritti di cittadinanza, riconoscendogli, attraverso lo strumento normativo, la tutela della propria libertà e dignità, nonché il fattivo diritto di associazione sindacale nei luoghi di lavoro. Una normativa che non ha attenuato il conflitto nelle relazioni industriali, ma che ha avuto il merito di ricondurlo entro un recinto di regole condivise. A mio avviso, uno dei punti critici che ha impedito in quarant’anni la piena attuazione della legge e del suo portato culturale e politico è da ricercarsi nella mancata approvazione di una normativa organica sulla rappresentanza e la democrazia sindacale nei luoghi di lavoro, normativa che viceversa vide la luce per il settore pubblico anche grazie al prezioso lavoro di Massimo D’Antona: il barbaro assassinio del quale proprio in questi giorni  ricorre il ventunesimo anniversario.

Detto tutto questo, come AIDP non possiamo fare a meno di osservare come sia passato mezzo secolo dalla promulgazione dello Statuto e la normativa di allora mostri oggi tutti i segni del tempo. La tecnologia ha compiuto progressi impensabili, i mercati si sono mondializzati, le organizzazioni hanno radicalmente modificato i loro assetti, i bisogni e le aspettative delle persone sono completamente differenti. I diritti vanno salvaguardati, inserendoli in una logica di funzionamento della società e delle imprese che nel frattempo è mutata significativamente. Oggi, mentre celebriamo il valore, anche simbolico, della legge 300, contestualmente riconosciamo l’esigenza di una sua riforma tesa a proiettare la Statuto nel futuro.

Come Associazione crediamo che il lavoro sia senza aggettivi, non c’è lavoro subordinato, autonomo, parasubordinato. Prima di tutto c’è il lavoro che è il passaporto della cittadinanza, come intende l’articolo 1 della Costituzione. Il lavoro non deve essere solo l’oggetto di un contratto, ma il modo attraverso cui la cittadinanza esiste, ha una sua visibilità, reclama una presenza e uno spazio. A cinquant’anni dallo Statuto dei lavoratori occorre una sua modifica, in alcuni punti anche non marginale. Questo non per svilirlo, ma al contrario, per sottolinearne l’importanza. È infatti nostra convinzione che nel Paese vada rilanciata una grande battaglia morale per porre nuovamente il lavoro al centro del vivere civile e sociale.

 

 

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