DEGLOBALIZZAZIONE DELLE FILIERE, GLOBALIZZAZIONE DEI TALENTI

 da HARVARD BUSINESS REVIEW

Alla fine del secolo scorso, con gli Accordi di Gatt e l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) nel 1995, il processo di globalizzazione ha avuto una forte spinta, rafforzatasi ulteriormente nel 2004 con l’adesione al WTO della Cina. Quella spinta sembrava inarrestabile e, grazie al web, il mondo sembrava farsi sempre più piccolo. La sensazione dominante era che lo stretto legame tra le grandi economie internazionali fosse una fonte di ricchezza reciproca, che il libero scambio di persone, merci e capitali a livello globale potesse produrre benefici per tutti. Per i paesi consumatori che avevano accesso a prodotti a costi più bassi e per i paesi produttori che potevano affacciarsi su nuovi mercati più ricchi, in grado di offrire un insperato benessere economico. Oggi quel senso di apertura, di speranza, di fede nell’avvicinamento tra paesi e culture come elemento inesauribile di arricchimento reciproco si sta tramutando nel suo opposto. Le economie mondiali si trovano a dover fare i conti con molti elementi difficilmente controllabili: la pandemia, le tensioni internazionali, l’esplosione dei costi dell’energia e dei trasporti, un’inflazione mondiale a doppia cifra, la mancanza di componenti elettronici, e così via. La percezione di sicurezza sembra risiedere nella diffidenza verso ciò che è diverso e lontano da noi, nel timore verso gli stranieri, nella sensazione diffusa che la chiusura verso gli altri sia più conveniente. Forse è giunto il momento di dare ragione a Giulio Tremonti che da sempre ha denunciato i limiti di una globalizzazione realizzata in tempi troppo rapidi?! Dopo la politica di dazi di Trump nel 2019 e 2020, da pochi mesi è entrata in vigore in Cina una legge che impone alle imprese di cercare fornitori interni in modo da dipendere sempre meno da quelli internazionali, soprattutto nell’industria elettronica (il target, da qui al 2025, è ridurre la dipendenza tecnologica dal 70 al 40%). una simile politica sta venendo attuata in molti Paesi, anche della UE. L’esplosione dei costi dei trasporti sta imponendo una revisione della strategia della Global Value Chain: molte aziende stanno pensando di riportare in patria o in Europa parte della produzione delocalizzata altrove negli anni precedenti. Questo non vuole dire che la globalizzazione sia morta, tutt’altro, ma semplicemente che si prospettano degli aggiustamenti nell’allocazione delle filiere produttive.

Nello stesso tempo, però, non si può pensare che il mondo torni radicalmente indietro nella libera circolazione delle persone, ma soprattutto nella conformazione degli assetti organizzativi delle imprese. Oggi il remote working è così sviluppato a livello internazionale che è impensabile un ritorno ad un modello d’impresa caratterizzato dall’unitarietà di tempo e spazio. Sempre più le imprese dovranno poter trovare i migliori talenti là dove sono. La questione della mobilità internazionale degli smart worker è poco analizzata, ma assolutamente attuale.  Uno studio di Eca Italia, “International Remote Working: un modello in evoluzione” su 44 imprese con headquarter in Italia, ha mostrato come il 53% delle aziende abbia consentito lo smart working dall’estero per il solo periodo di emergenza Covid.  Al contrario, solo il 3% delle imprese oggetto della ricerca si è dichiarato disposto ad autorizzare il lavoro da remoto a livello internazionale su base stabile, anche dopo la cessazione dell’emergenza pandemica. Questa resistenza da parte delle aziende si fonda su tre ordini di problemi: fiscale, previdenziale ed organizzativo. Sul versante fiscale, l’operatività di un lavoratore dall’estero potrebbe implicare il rischio per il datore di lavoro italiano di imponibilità dei propri redditi di impresa presso lo stato estero ove il lavoratore abbia svolto la propria attività lavorativa. Analogamente, la guardia di finanza italiana ha accusato il marketplace della moda Farfetch di “stabile organizzazione occulta” e l’ha costretta ad aprire una sede nel nostro Paese solo perché un suo dipendente stava lavorando dalla sua abitazione sita a Bologna. Anche dal punto di vista previdenziale vi è la necessità di un apposito accordo tra gli enti previdenziali coinvolti al fine di mantenere la sola applicabilità degli oneri contributivi nel Paese ove il lavoratore è già registrato. E, infine, dal punto di vista organizzativo, l’allocazione dei talenti in più Paesi si scontra ancora oggi con la vischiosità degli apparati e l’abitudine ad una leadership ancora troppo basata unicamente sul paradigma del comando – controllo in presenza.

 

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