I TIMBRI E IL SOUTHWORKING

 da HR ON LINE

 

 

“Dopo la calata dei Goti, dei Visigoti, dei Vandali, degli Unni e dei Cimbri, la più rovinosa per l’Italia fu la calata dei Timbri. Erano costoro barbari di ceppo incerto, alcuni dicono autoctoni, dall’aspetto dimesso e famelico, che ispiravano più pietà che terrore. Invece di assediare le città e passarle, una volta occupate, a ferro e a fuoco, essi usavano introdurvisi a piccole frotte: senza dar nell’occhio. E vi si stabilivano a spese della comunità, rendendo piccoli servigi inutili ma che col tempo venivano ritenuti indispensabili. Ben presto ci si accorgeva che era impossibile fare qualcosa senza di loro. Né promettere, né mantenere, o andare a nozze o vendere. Portati per natura a discutere di ogni cosa e all’approfondimento implacabile e cavilloso delle più semplici leggi e costumanze, i Timbri si trovarono a possedere le chiavi di tutto. Senza la benedizione di un Timbro non si poteva nemmeno morire; e se questo vi pare assurdo, vi dirò che si poteva sì morire, ma non essere creduto. Nel tempo furono fatte varie leggi per contenere la loro preponderanza. Ma tutte erano viziate all’origine dalla necessità che anche per rendere esecutive quelle leggi occorresse un Timbro. La moltiplicazione dei Timbri, estremamente prolifici, era anche favorita dalla pratica che questi barbari affermarono, sospettosi com’erano dei propri simili, di doversi approvare l’un l’altro. Sicché diventavano necessari in numero sempre maggiore. E ve n’erano di varia importanza, dai più umili, i Lineari, ai più imponenti, i Tondi, ma nessuno disposto a subire il predominio degli altri. Perciò feroci lotte intestine, che ancora oggi perdurano. Non è infrequente che nei pubblici uffici, allorché ritenete di aver assolto i vostri obblighi verso i Timbri, che qualcuno vi dica: Manca il Timbro Tondo, o Lineare, o Secco, o Punzone. Bisogna mettersi alla ricerca dell’assente, blandirlo, convincerlo, spesso corromperlo. La vostra identità, la vostra nascita, la vostra famiglia, i vostri beni, il semplice fatto che siete in vita, tutto è messo in dubbio dall’assenza di un solo Timbro; e così essi hanno stabilito che nessun cittadino può dirsi esistente senza il loro totale consenso. Colpita alla radice, la società patriarcale e nominale cadde preda di questi barbari, che ancora oggi governano l’Italia con il più semplice e astuto dei mezzi: ignorandola, anzi immersi nella continua contemplazione della loro forza, che nessun mutamento ha mai potuto domare; poiché è dimostrato che i mutamenti eccitano i Timbri fino al delirio. Per un po’ scompaiono, ma subito tornano più forti e resistenti di prima, come succede del resto con certe specie di insetti. E sempre con nuove idee”.(1)
Così scriveva Ennio Flaiano nel 1972 descrivendo, con la sua ineguagliabile ironia, la burocrazia che attanaglia il nostro Paese. Questo appare un territorio sempre più spaccato in due. Un nord industriale che tenta di non perdere l’aggancio con L’Europa, un sud che non riesce ad uscire dai suoi problemi atavici e che rimane arretrato sul piano industriale e anche su quello dei servizi e delle infrastrutture. Troppe volte, per i giovani del sud, la prospettiva di un posto di lavoro nel pubblico rimane ancora la meta agognata, in mancanza di altre opportunità concrete. I Timbri, da questo punto di vista possono addirittura sembrare meno opprimenti. Soprattutto quando l’alternativa è il trasferimento al Nord.

Negli ultimi 15 anni, 2 milioni di giovani laureati e di lavoratori si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Nord Italia, con un trend crescente: se nel 2001 i laureati meridionali che emigravano erano il 10,7%, nel 2011 la percentuale era più che raddoppiata, raggiungendo il 25%. Si tratta di persone che, grazie al lavoro a distanza, in moltissimi casi sono tornate nella loro terra natia a casa e che ora coltivano il sogno di poter continuare a lavorare da remoto stabilmente, anche dopo la fine della situazione emergenziale. Lo Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, stima siano 100.000 i lavoratori che per lavorare da remoto hanno fatto ritorno al sud. Circa il 3% di tutta la popolazione in remote working. Secondo una ricerca condotta dallo stesso Svimez in collaborazione con l’Associazione South Working, l’85,3% dei lavoratori meridionali trasferitesi al nord tornerebbe a vivere al sud, se fosse loro permesso continuare a lavorare da remoto.

Tra i vantaggi più riconosciuti dai lavoratori nello spostarsi al Sud, figurano il minore costo della vita e la disponibilità di un’abitazione a basso costo. A scoraggiarli, invece, soprattutto i servizi sanitari, quelli di trasporto e quelli legati a scuola e famiglia.

La maggior parte delle aziende intervistate ritiene, invece, che i vantaggi principali del south-working siano la maggiore flessibilità negli orari di lavoro e la riduzione dei costi fissi delle sedi fisiche. Ma, allo stesso tempo, crede che gli svantaggi maggiori siano la perdita di controllo sul dipendente da parte dell’azienda, il rischio che venga meno l’affiliazione con l’azienda, gli investimenti necessari in tecnologia ed infine i problemi di sicurezza informatica.

Lo Svimez sottolinea come il south-working potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per lo sviluppo del Sud. Per realizzare questa nuova opportunità è tuttavia indispensabile costruire intorno ad essa una politica di attrazione di competenze con un pacchetto di interventi concentrato su quattro cluster:

1) incentivi di tipo fiscale e contributivo;
2) creazione di spazi di co-working;
3) investimenti sull’offerta di servizi alle famiglie (asili nido, tempo pieno, servizi sanitari);
4) infrastrutture digitali diffuse in grado di colmare il gap Nord/Sud e tra aree urbane e periferiche.

Probabilmente dovremmo ritoccare anche la legge sullo smartworking, datata maggio 2017. Nell’ultimo anno si è rivelata uno strumento valido, ma lo sviluppo improvviso del fenomeno richiede probabilmente norme più dettagliate sul diritto alla disconnessione, sul welfare aziendale e sulle responsabilità legate a cybersecurity e data protection.

(1) Tratto da: Ennio Flaiano, 2004, Le ombre bianche, Milano, Adelphi, pp. 255-56

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