IL CASO BRIDGER WALKER

 da HR Online

Bridger Walker è un ragazzino di dieci anni del Wyoming (USA) che ha salvato sua sorella minore dall’attacco di un pastore tedesco. Il 9 luglio di quest’anno stavano camminando insieme per la strada quando, all’improvviso, è comparso un cane inferocito che si è lanciato contro la sorellina. Lui si è frapposto per proteggerla: “Se qualcuno doveva morire, quello ero io, sono il fratello maggiore”. Il bimbo ha ricevuto 90 punti su tutto il corpo, il volto è straziato da una vistosissima cicatrice indelebile, ma ha salvato la sua sorellina da morte certa.

La Lega internazionale di boxe, il World Boxing Council (WBC), lo ha riconosciuto campione del mondo dei pesi massimi per un giorno. Rimarrà sul registro ufficiale della WBC che per un giorno è stato il miglior combattente del mondo. Grande piccolo guerriero!

La Federazione internazionale di boxe ha compiuto un gesto di alto valore simbolico. Ha premiato il coraggio, l’altruismo, la responsabilità e l’amore. Ci ha voluto ricordare che essere dei combattenti non vuol dire semplicemente “menar le mani”, ma sapersi sacrificare per ciò che riteniamo importante. Il combattimento fine a sé stesso non ha senso, sia nello sport, sia in tutte le manifestazioni dell’agire collettivo.

Segnalo questo piccolo episodio in un periodico di management perché noto che quando si parla di gestione delle risorse umane si utilizzano troppo spesso termini ed espressioni di derivazione bellica. Le parole utilizzate rimandano sempre a valori e significati profondi. Non costruiremo mai imprese solide e durature con questa logica. Il conflitto può avere una funzione positiva, non va demonizzato, ma deve avere una finalità. Fino a quando il livello di conflitto non supera una certa soglia, la competizione nel lavoro può avere un effetto tonico anche all’interno della singola impresa: stimola l’innovazione, la creatività, la soluzione dei problemi, il desiderio di migliorarsi.

Oltre una certa soglia, le cose però cambiano. A nessuno piace vivere con il nemico alle porte o, peggio, seduto alla scrivania accanto. Dentro le imprese ne risente l’operatività, perché le energie migliori sono dirottate sul conflitto, che diventa il tema ossessivo di ogni discussione e di ogni pensiero. Infine, si riduce la capacità di analizzare la situazione e trovare soluzioni soddisfacenti.

Alla fine, tutti si sentono perseguitati da qualcun altro. Tutti sconfitti. Quello che è difficile trovare è il vincitore. C’è da chiedersi da cosa dipende il passaggio da un conflitto tutto sommato positivo a uno tragicamente distruttivo.

Nelle organizzazioni, i conflitti iniziano quasi sempre da un motivo concreto: come ripartire le risorse, gestire un processo di lavoro, distribuire gli incarichi, sviluppare le attività e così via. Motivi perfettamente razionali dietro ai quali, però, si annidano interessi contrastanti e divergenze sui valori. E sullo sfondo aspetti ineliminabili del funzionamento mentale, come l’aggressività, la paura, il bisogno di controllo, la tendenza ad attribuire agli altri intenzioni ostili.

Per questo motivo, di fronte a un attacco (vero o presunto) la nostra reazione istintiva non è una risposta di pari intensità, ma un vero e proprio contrattacco. Se diamo retta all’istinto, cosa che purtroppo talvolta avviene, i conflitti entrano in una spirale di intensità via via crescente e, contemporaneamente, cambiano natura. È una vera e propria escalation, che rischia di portare esiti molto negativi per tutti.

Come ci ha voluto insegnare la Federazione internazionale di boxe premiando un piccolo grande campione, il vero combattente è colui che sa essere responsabile, difende chi gli sta vicino, soffre e combatte per amore o solidarietà, non per semplice vanagloria.

 

 

 

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