I LAVORATORI LICENZIATI DA ALMAVIVA, 13 MESI DOPO

 da HR ONLINE

 “Mio padre aveva lavorato nella stessa azienda per dodici anni. Poi lo licenziarono per sostituirlo con un enorme computer. Fa tutto ciò che faceva mio padre, ma meglio. La cosa più deprimente è che anche mia madre se ne è comprato uno e poi se ne è andata da casa.”

La freddura è di Woody Allen e descrive bene i rischi che un numero sempre maggiore di lavoratori stanno affrontando. A proposito di licenziamenti, negli ultimi giorni stanno tornando alla ribalta i lavoratori di Almaviva. Proviamo a riassumere cosa è successo. Nel dicembre 2016 il call center di AlmavivaContact ha licenziato i 1.666 dipendenti della sede di Roma, dopo che le RSU avevano rifiutato la proposta dell’azienda che, per far fronte alla crisi, chiedeva ai lavoratori una riduzione temporanea dello stipendio.

Da allora sono successe alcune cose da cui è possibile trarre delle prime conclusioni:

  • Dopo il licenziamento si è aperta una guerra giudiziaria tra azienda e lavoratori: 153 lavoratori sono stati reintegrati dopo un anno, ma altre sentenze hanno dato ragione all’azienda. La guerra andrà avanti tra ricorsi e appelli, ma ormai è evidente che per questa via il problema non si risolverà, salvo che forse per una piccola frazione dei lavoratori licenziati.
  • La UE ha stanziato più di 3 milioni di Euro e gli enti locali hanno aggiunto ulteriori finanziamenti al fine di supportare delle azioni di formazione e politiche attive di riconversione professionale al fine di trovare ricollocazione ai lavoratori licenziati. Un mare di denaro coordinato da Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive per il Lavoro) che dovrebbe svolgere da stimolo anche verso i centri per l’impiego locali. Il risultato a distanza di più di un anno è nullo. Poca formazione erogata, nessuna persona ricollocata.
  • Contemporaneamente i lavoratori prendono anche la Naspi, l’indennità di disoccupazione che può durare per un massimo di due anni, garantisce i contributi figurativi per il periodo di vigenza e che garantisce il 75% della retribuzione fino a un massimo di € 1.300 euro mese (in flessione del 3% ogni mese). La Naspi pesa sul bilancio INPS già in profondo rosso. Teoricamente se un lavoratore rinuncia a un’offerta di lavoro perde il diritto all’assegno di disoccupazione ma, in questo caso, non è andata così (almeno secondo il racconto della Direzione aziendale e di molte persone coinvolte).
  • Nei fatti molti licenziati preferiscono prendersi la Naspi e andare a lavorare in nero piuttosto che accettare un nuovo lavoro.
  • Anpal accusa così i lavoratori di non voler trovare un nuovo posto di lavoro per prendersi il sussidio senza lavorare alla luce del sole. Il sindacato di base accusa i centri per l’impiego e l’Anpal di immobilismo. Le segreterie nazionali del sindacato, fortemente coinvolte nell’ideazione e gestione dell’Anpal tacciono. Le forze politiche pensano a promettere un radioso futuro per tutti, come non è dato capire.
  • L’atteggiamento intransigente del sindacato di base, pur comprensibile, non sta pagando. Quanto sta succedendo agli ex lavoratori di Almaviva è molto simile all’esito di quasi tutte le medesime crisi aziendali di questi ultimi mesi.
  • Il meccanismo di funzionamento della Naspi nel suo rapporto con le politiche attive per l’occupazione, teoricamente corretto, nella pratica non sta funzionando perché si basa sul lavoro dei centri per l’impiego. Questi nei loro ormai vent’anni di vita non hanno mai funzionato: per altro sono gli eredi dei vecchi uffici di collocamento creati nel lontano 1949 e che per valutazione unanime non hanno mai funzionato. Dopo ottant’anni di fallimenti costanti nel fare incontrare offerta e domanda di lavoro, sarebbe davvero miracoloso riscontrare anche solo un moto di vita. Lascia davvero sorpresi vedere che i sindacati e la maggioranza delle forze politiche pensano ad un loro rafforzamento: 80 anni di fallimenti costanti ed assoluti non vi sembrano ancora sufficienti?!

 

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